mercoledì 19 gennaio 2022

Bernini capobastone

“Gli artisti che lavoravano a Roma dovevano subire la sua «dittatura». Per oltre cinquant’anni dovettero accettare, volenti o nolenti, la supremazia del Bernini…. E furono proprio i suoi più stretti collaboratori a subire talvolta le conseguenze più pesanti”. Primo fra tutti Francesco Borromini. Bernini si fece pagare il Baldacchino di san Pietro e palazzo Barberini senza nulla dare a Borromini – “il Borromini deluso e deriso”, dice il biografo Baldinucci, “lasciò e abbandonò il Bernino, con questo detto: non mi dispiace che abbia avuto li denarii, ma mi dispiace che gode l’onor delle mie fatiche”.
Un capomafia, pure violento. Quando subodorò che la sua amante se la faceva col suo proprio fratello, si appostò per ucciderlo, e mandò a sfregiare l’amante. Sopravvissuto il fratello all’agguato, con sole due costole rotte, cercò di farlo fuori anche in casa della madre, che lo denunciò, spiegando che, non trovando il fratello Luigi in casa, lo aveva cercato “in S. Maria Maggiore”, la basilica lì vicino, “con la spada in mano, e cercò per tutta la canonica con disprezzo di Dio” – ma a nessun effetto, Bernini rispondeva al papa. Non si ritrovò per questo alla corte di Francia, dove pure Luigi XIV dispose per lui accoglienze regali. Non riuscendo a spadroneggiare,  controllato in ogni minima spesa o progetto di spesa dal ministro Colbert, e contestato dagli architetti locali - il suo progetto per il Louvre fu accantonato – se ne tornò a Roma.
In un mondo da fine del mondo: “Molteplici «segni» apparivano in cielo su Roma e si abbattevano qua e là paurose tempeste”. Le locuste sul Tevere. La grandine a pallettoni. Nel febbraio del 1622 tre soli in cielo. A marzo “una preoccupante moria”. In piazza Giudea una donna partorisce una “creatura con quattro braccia e quattro piedi”. Un’altra, ai Pantani, “partorisce un demonio, o almeno una creatura che del maligno aveva le sembianze”, che il parroco si rifiuta di battezzare. Al tramonto il 12 agosto del 1629 “il cielo fu improvvisamente solcato da frecce, saette, spade lucenti e scintille di fuoco”. Si tornava all’astrologia. Lo stesso papa Urbano VIII Barberini, “che pure varerà nel 1631 a bolla Contra Astrologos, non ne era immune” – ne era attivo praticante: “Nel mese di giugno del 1640una gallina aveva fatto un uovo sul quale era disegnato, sia pure confusamente, lo stemma dei Barberini. La vecchia (e scaltra?) proprietaria della gallina si ebbe un premio di dieci scudi d’oro”,
Era anche la Roma dei processi. “Il Seicento si era aperto con i sinistri bagliori del rogo di Giordano Bruno”, spogliato nudo, legato a un palo. Campanella sopravvisse alla lunga prigionia per saper ragionare di astrologia? Nel 1625 si condannava per eresia Marcantonio De Dominicis, morto l’anno prima – era relapso, si era riconciliato con la Chiesa in punto di morte, ma la sua confessione non fu ritenuta sincera: il cadavere fu esumato, e arso, anch’esso in Campo dei Fiori. Si faceva spettacolo di processi, e abiure o condanne, in piazza della Minerva, al ponte dell’Angelo e altrove: erano gli “spettacoli” più seguiti, si concludessero o no con roghi o squartamenti.
Ma fu un secolo pieno anche di grande pittura e architettura. Non tutti subirono il capestro di Bernini. Qualcuno operò a Roma prima del suo dominio: Caravaggio, Annibale Carracci. Altri vi prosperarono chiamati e protetti da grandi famiglie e cardinali: Velázquez, Rubens, Lorrain, Poussin. Pietro da Cortona pure, “morì ricchissimo”. Ben remunerati, e garantiti in ogni capriccio, dalla divisa di Paolo V Borghese e poi di Urbano VIII Barberini : “Pictoribus atque poetis omnia licent”, agli artisti tutto è permesso. E poi di Clemente IX, “la breve, felice stagione” del papa Rospigliosi, “definita da un anonimo francese «l’età dell’oro del nostro secolo»”.
La città di uomini si illustrò anche per storie e gesta di donne. Madame Mancini, Maria Mancini Colonna, la “connestabilessa” nipote del cardinale Mazzarino, sposata prudentemente a Lorenzo Onofrio Colonna, lontano dagli appetiti del Re Sole, a Roma. Dove, scriverà”, “le persone più eminenti vivevano in un continuo bordello”. Lei vi aprì un salotto più a modo. In concorrenza con la regina di Svezia, neo convertita e romana per scelta. Accolta dalla città con onori anche più trionfali di quelli riservati a Bernini in Francia – Bernini restaurò per lei come arco di trionfo la porta d’ingresso di piazza del Popolo. Della regina Paita dà un ritratto fuori quadro: “Una donna piccola di statura, un po’ gobba, il naso aquilino, occhi grandi e vivaci sotto una fronte piuttosto ampia”. Con “gesti e movenze più da uomo che da donna”. Un secolo come un’avventura.
Almo Paita, La vita quotidiana a Roma ai tempi di Gian Lorenzo Bernini, “Corriere della sera”, pp. 325, gratuito col quotidiano

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