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Dante millenarista, con juicio
Due
mondi diversi, a un secolo di distanza. Gioacchino, benché
cistercense e abate, nato probabilmente da famiglia contadina, servo della
gleba, in un remoto villaggio pedemontano, portinaio del convento cistercense
di Sambucina, poi girovago per varie altre abbazie, prima di fondare il suo proprio
ordine, Florense, Dante ipercolto, uno degli ottimati della signorile e democratica
Firenze, banchiera d’Europa.
“Una importante componente del
misticismo di Gioacchino è greco-orientale, per la cui formazione avevano concorso
testi biblici e paleocristiani. Presto corretti dai Normanni in senso latino,
nonché dal monachesimo, “dai temi lavoristici dell’ordine benedettino e di
quello cistercense”. Il francescanesimo aveva riproposto il misticismo anche in
mondi remoti da quello greco-ortodosso, ma presto si era fatto confuso.
Una
distanza doppia: “Gioacchino era ancora il Medioevo che tramandava arcaici,
orientali, immobili miti in una Calabria lontana “dalla rinascenza”, mentre “in
Toscana la rinascenza verdeggiava”.
Distanti
anche le concezioni. “Per Gioacchino, monaco di Calabria e nutrito di libri
sacri testamentari e profetici, occidentali e orientali, c’è un mondo mistico
da preparare, il mondo del contemplante e del santo”. Questo è vero anche per Dante.
“Ma in Gioacchino non c’è la filosofia della storia umana che c’è in Dante”.
Fatte
le distanze, resta che Dante è onnivoro. Fagocita tutto, e non è sordo “al
richiamo delle voci profetiche”. Più che un rapporto da maestro a discepolo, un
mondo, per quanto remoto, cui Dante non rinuncia.
Il
saggio è soprattutto interessante per la ricostruzione del mondo giaochimita,
fisico e culturale.
Antonio
Piromalli, Gioacchino da Fiore e Dante, Rubbettino, pp. 73 € 4,56
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