Dell’olocausto o dell’inefficienza
A seguire a “Auschwitz, città tranquilla” pochi mesi fa,
“la Repubblica allarga la memoria. Qui legando Levi a Leonardo De Benedetti, il
suo compagno di prigionia, nelle testimonianze sulla reclusione – “Testimonianze
1945-1986. Con Leonardo De Benedetti” è il sottotitolo. Numerosi i documenti di
entrambi sulla deportazione, comprese le testimonianze da loro rese a carico di Höss,
il comandante di Auschwitz, di Eichman, e di Bosshammer, collaboratore di Eichman,
suo rappresentante in Italia, a Verona (il lager di Novoli compreso).
Non una grande lettura: De
Benedetti, ma anche Primo Levi, sono qui didascalici, precisi più che narrativi,
dettaglisti, prolissi – avvocateschi, per voler essere veri e veritieri, essere
creduti. Se non per un sospetto che emerge crudo a ogni pagina, per quanto
sorprendente, e con la lettura si rinsalda: che i tedeschi prima che cattivi
sono inefficienti, e che anzi hano perso le guerre, anche contro gli ebrei, per
essere inefficienti. Un capomastro tedesco, direbbe Primo Levi, che studiò “Faussone”,
il capomastro piemontese tutti azimut, non è uno più bravo, che risolve tutti i
problemi, di montaggio, di funzionamento, di adattamento, anzi è solo più
rigido, fino alla brutalità.
Si vede dale prime righe della
prima testimonianza, congiuta, di Levi e De Benedetti, ai russi che li avevano
liberati. Mandano gli ebrei ai campi di
lavoro in vagoni bestiame, l’uno sull’altro, per quattro giorni e quattro
notti, con pane, marmellata e formggio ma senza acqua – l’acqua se l’erano
dimenticata. Mandano i carri bestiame zeppi di ebrei di ogni bordo, ultraottantenni
e lattanti, col cibo (senza l’acqua) e con scorte armate numerose, per disfarsene,
dopo quattro giorni e quattro notti di viaggio: potevano disporne appena presi,
una pallottola costava meno. Il convoglio di Primo Levio da Fossoli a Auschwitz,
compost di 650 persone, tra essi un lattante di tre mesi, dà alla fine della
corsa 95 maschi validi e 23 donne – il resto erano vecchi, bambini e invalidi.
Lo sterminio fu un grosso spreco, organizzato certo.
Lo spreco dell’acqua anche,
che non c’era da bere ma per lavarsi sì. Docce due e tre volte la settimana - senza
possibilità di asciugarsi. Doccia di tutto lo stanzone se un solo pidocchio veniva
trovato all’esame di tutti gli indumenti, minuzioso, il sabato pomeriggio.
Non c’era scorbuto né
polinevrite. Né tifo petecchiale. Una sorta di ospedale era in funzione ventiquattro
ore, una serie di ambulatori di ogni specialità terapeutica. Serviti da medici specialisti,
con infermieri. Le squadre andavano al lavoro la mattina, con marce anche di
sette-otto km., dopo un’adunata all’alba di due-tre ore, al freddo, al suono di
bande musicali, allegre.
Una fabbrica di 35 km quadrati, la Buna-Werke, servita da
decine di migliaia di operai schiavi, per ricavare benzina, gomma, coloranti e
altri prodotti sintetici dal carbone, che in un anno e mezzo non produsse nulla.
Contornata da alti reticolati di filo spinato”.
Servita da “Ebrei di ogni nazionalità d’Europa”. Nonché da criminali tedeschi
e polacchi, da «politici» polacchi e da «sabotatori”.
E, liberi fuori del recinto, salariati, da civili polacchi, manovali o specializzati.
Che regolarmente sabotavano l’impianto.
Il primo sabotaggio era interno
alla stessa organizzazione. Il pane con la segatura dentro. La saponetta con la
sabbia. I preziosi sottrati ai deportati e scomparsi. Venivano tesaurizzati
(venduti) anche gli abiti dei deportati. Nelle testimonianze qui raccolte non si dice,
ma la corruzione era normale, tra i tedeschi.
Si scorrono questi verbali anche
con l’impressione netta che i Tedeschi, dopo averle buscate dai francesi, e poi dai
russi, le abbiano buscate, con distruzione più radicale, pure dagli ebrei. Una
guerra che a loro sembrava un’inezia, e invece si è rivoltata contro in forme radicali.
Non cruente ma ugualmente micidiali. È inevitabile assimilarte tedeschi e ebrei,
perché l’assimilazione vi era – vi è – la più larga e approfondita, nel mondo
tedescofono, per una sorta di comuni forme mentali, speculative e non, e anche
di linguaggio, lo jiddisch essendo un dialetto o una lingua (Singer, Aleichem) germanica.
È ben “tedesco” il primo documento
di questa raccolta, il rapporto steso da Levi e De Benedetti nel 1945, subito
dopo la liberazione, alle autorità russe del campo, dettagliato, preciso,
freddo. Ciò che colpisce nelle relazioni di Levi e De Benedetti del sistema
concentrazionario non è la sua crudeltà ma l’ottusità. Dall’alimentazione alle
cure, l’apparato enorme e dispendioso, straordinariamente complesso e insieme – non
inevitabilmente – lacunoso e inefficiente. Ma senza che, ecco il punto, l’organizzazione
tedesca vi ponesse rimedio in corso d’opera. Se il deportato era destinato a
morire, l’organizzazione era uno spreco, un teatro dell’assurdo, immane. Se era
destinato ai lavori forzati, era uno spreco per difetto, fosse per cattiveria o
per incapacità.
Primo Levi ne ha dato altrove
varie testimonianze, anche allegre. E Rousset, il primo a testimoniare con una
pubblicazione l’Olocausto.
Primo Levi (“Lo
scoiattolo”, in “L’altrui mestiere” – ora in “Ranocchi sulla luna e altri
animali”): la gabbia degli scoiattoli. “Ho incontrato pochi scoiattoli nella
mia vita”, premette Levi, “qualcuno nei boschi”, come tutti, o “nei parchi di
Ginevra e Zurigo”. Quelli che ricorda sono altri: “Altri ne ho visti in
prigionia, ma non apparivano meno vivaci né meno allegri de loro colleghi della
foresta. Erano una dozzina, rinchiusi dentro una grande gabbia”. Nella grande
gabbia una più piccola, la “«gabbia di scoiattolo», cioè cilindrica, appiattita
e ad asse orizzontale, senza sbarre da un lato e liberamente girevole attorno
all’asse medesimo”. Insomma, curatissima. Fatta apposta per i giochi degli
“animaletti”, che Levi ricorda “visibilmente compiaciuti”.
L’ordine
disordinato del lager in D.Rousset,
“L’univers concentrationnaire”, 96: “L’odio insensato che presiede e comanda
tutte queste imprese è fatto dello spettro di tutti i rancori, di tutte le
ambizioni meschine deluse, di tutte le invidie, di tutti i dispiaceri generati
dalla straordinaria decomposizione delle classi medie tedesche tra le due
guerre. Pretendere di scoprirvi gli atavismi di una razza, è precisamente fare
eco alla mentalità SS”.
Tra gli ebrei che
in massa dalla Grecia o dalla Francia venivano deportati “all’Est” la speranza resisteva per un deficit di
efficienza. “Era assurdo che i tedeschi avessero organizzato, organizzassero
questi lunghi viaggi per poi ucciderci all’arrivo”, pensavano i deportati.
Potrebbe dirsi una furbata, l’olocausto dovendosi consumare lontano da occhi
indiscreti. Ma assurdo è. All’arrivo,
guardie occhiute uccidevano, a uno a uno, gli anziani e i malati.
Le testimonianze, recuperate
e collazionate da Fabio Levi e Domenico Scarpa nel 2015, sono ordinate
alternando Primo Levi a Leonardo De Benedetti, medico chirurgo, compagno di prigionia
di Levi a Fossoli e Auschwitz, spesso anche in coppia, per la prima volta nella
primavera del 1945, subito dopo la liberazione, al Comando russo del campo per
ex prigionieri di Katowice – prospiciente Auschwitz-Oswieçim. Da allora, 1945-46
(la testimonianza fu rivista da Levi e De Benedetti dopo il ritorno in Italia,
dove la pubblicarono nel 1946), fino al 1986, “La nostra generazione”, una
lettura-testamento di Levi sulla sua sorte avventurosa nella grande storia, pochi
mesi prima della morte. Un ultimo testo preceduto, tre anni prima, dal ricordo
commosso di Leonardo De Benedetti, “un uomo buono”. Anche qui con un tocco sinistro di ottusità tragica:
“Era ebreo, e per sfuggire alla cattura da parte dei tedeschi, nell’autunno di
quell’anno (1943, n.dr.) aveva tentato di sconfinare in Svizzera, insieme con
un grosso nucleo di parenti. Avevano tutti superato il confine, ma le guardie
svizzere erano state inflessibili: avevano accettato solo i vecchi, i bambini e
i loro genitori, tutti gli altri erano stati riaccompagnati alla frontiera
italiana”.
Le testimonianze
sono doppiate da apparati ricchissimi, di facsimili di documenti, e di molte note
di contestualizzazione,
Primo Levi, Così
fu Auschwitz, “la Repubblica”, pp. 245
€ 9,90
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