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La morale del figlio sacrificato
Il famoso poemetto
“If”, di precettistica al figlio già adulto, “un piccolo tr attato, scritto in
poesia, sull’educazione”. L’edizioncina si segnala per il saggio di Vittorino Andreoli
che lo inquadra. Nell’etica positivista di fine Ottocento, di cui Kipling era,
come ogni vittoriano anche di fuori via, imbevuto. E per rispecchiare,
bizzarramente, la pedagogia di cui Kipling era stato vittima da bambino e poi
ancora da adolecsente. Separato dai genitori a sei anni, mandato dall’India a
fare le scuole in Inghilterra, insieme con la sorellina di due, pensionanti di famiglie
che avevano l’obbligo, pedagogico, di non familiarizzare con i bambini affidati.
Poi per un anno con i genitori in India, che a questo punto è già per lui una
favola. Quindi di nuovo solo con la sorella n Inghilterra, per completare gli
studi, altri sette anni. Quando torna a Lahore, avendo lasciato il college, a
diciassette anni, è infine felice. Una liberazione. Scrive e pubblica poesie e
racconti, affascinato dalla città, “quella meravigliosa, lurida, misteriosa
collina di formiche”. L’anno dopo rientra anche la sorella. A ventun anni viene
iniziato alla Massoneria, la “loggia madre”. A venticinque fa un giro del mondo
e si stabilisce a Londra – a 42 anni, nel 1907, sarà Nobel.
A 25 anni Kipling
ha già avuto bisogno di un’autobiografia. Dove racconta normalità immonde: “Uscendo
una volta dalla chiesa, ho sorriso… Fu riportato alla signora Sarah”, presso la
quale alloggiava, “e fui punito”. Annota Andreoli: “Confesso di avere letto
queste pagine incredulo di come potesse essere l’educazione nella capitale dell’Impero
britannico”.
Quando invece pensa
al figlio, e a come preservarlo e sostenerlo, gli indirizza questo poemetto, giustamente
famoso per l’impianto e lo svolgimento, la scansione, la musicalità. Ma improntato
alla durezza. Argomentato come possibilità (“Se”) e non come precetto, ma di un
condizionale imperativo. Sono peraltro molte le condizioni da adempiere per “essere
un uomo”.
Andreoli lo dice
un modello pedagogico inclusivo, applicabile anche all’autore, del sapersi
rendere protagonisti della propria esistenza, i dubbi e le difficoltà prospettandosi
come possibilità - si vince, ma si può perdere: “Questo umanesimo mi affascina
forse perché oggi fatico a trovarne traccia e vedo dominare le inimicizie, le
lotte, persino all’interno delle famiglie, per non parlare delle guerre tra le
comunità e tra i popoli”. Il “se”, dunque. E l’attesa: non “in tono fatalistico
o passivo”, nota sempre Andreoli, ma “il segreto per cui, nella crescita, vale
più l’attesa che l’azione” – precetto e metodo specialmente utili “in questo
mondo riempito di tempo reale, che vuole dire dell’immediato, favorito dalle
macchine (i computer)”.
Il precetto è semplice: avere fiducia in se stessi, anche nelle disgrazie.
Curiosamente
però, certo non per lo psicologo, manca l’affettività, la cui assenza è stata particolarmente
sofferta nell’infanzia e la prima giovinezza dallo scrittore, le emozioni, i
sentimenti: Kipling ripete col suo proprio figlio l’esperienza da lui sofferta.
E si spingerà qualche anno dopo - il poemetto fu pubblicato nel 1910 - a volere
a tutti i costi nel 1914 il figlio, appena diciassettenne e comunque riformato
per problemi di vista, arruolato in guerra, nella quale verrà ucciso, senza
speciale gloria, pochi mesi dopo.
Rudyard Kipling, Sarai
un uomo, figlio mio, Garzanti, pp. 61 € 4,90
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