La ribellione del proscritto
Il conservatore come
ribelle, irriducibile? Rivoluzionario già lo sapevamo - la destra conservatrice,
Thomas Mann compreso, ha dominato la Germania rivoluzionaria del primo dopoguerra.
Ma ribelle? Jünger lo dice qui, nel 1951 - poi lo dirà anche Hobsbawn, ipocritamente,
non volendo sfuggire alle “leggi ferree” di Marx - che quella del latitante è
la condizione per eccellenza dell’uomo. Nell’antica Islanda il proscritto
vichingo si rifugiava nei boschi - e sarà, scendendo per i meridiani, Robin
Hood, folletto e partigiano. Si fa proscritto per libera scelta, un franco
tiratore.
Questo proscritto-Robin
Hood è il Waldgänger, l’uomo dei boschi. Che è anche, in una parte del
mondo teutonico, il proscritto che della sua disgrazia fa una liberazione, il partigiano. Partigiano dunque, più che ribelle. Ma il titolo originario è “Der Waldgang”, come
a dire una passeggiata nel bosco. Una serie di riflessioni, anche concatenate,
ma non deduttive, o induttive, non una riflessione organica. A volte l’una si innesta
nell’altra, ma senza un disegno. Non un “trattato”. E nemmeno, nell’insieme, un
“ribelle”: la libertà dell’anarca, qualcosa di simile all’anarchico, ma
conservatore, individualista. Sdegnosamente: il collegamento, non esplicito ma
evidente, è a Thoreau, “Walden, l’uomo dei boschi”, America metà Ottocento, le
divagazioni di un solitario, vagabondo, responsabile anche se, certo, non
suddito, meno che mai della pratica quotidiana.
Cosa resta? Gli
umori di Jünger, come sempre sorprendenti. Anzi qui più che altrove, in una
scorribanda a ruota libera. La sorpresa è in ogni pagina. Non necessariamente l’una
coerente con l’altra, come sempre in Jünger.
“Viviamo in un
tempo in cui ci interpellano senza posa poteri inquisitoriali”. Sarà stato
dunque il marchio del Novecento, se Jünger ha potuto rimarcarlo, pianamente,
nel 1951, finite le dittature fasciste? Ma, certo, erano ben vive, anche nel cuore
della stessa Germania, quelle comuniste.
Anche il silenzio
ci condanna, ci condannava, senza scampo: “Tutto diventa risposta in questa
congiuntura, e per conseguenza assunzione di responsabilità” – “a che serve
scegliere in situazioni in cui non si ha più scelta?” Come il sodale Heidegger,
con il quale condivideva il semi-isolamento della denazificazione nel dopoguerra,
scambiandosi pareri infausti (“Oltre la Linea”, con Heidegger, precede di qualche
mese questo “Trattato”, “Il nodo di Gordio” lo seguirà due anni dopo), Jünger
si sente già vittima, anche lui, di un “pensiero unico”, come sarà poi chiamato
– ora, nel Millennio. È in questo senso che il suo “Trattato”, che non è un
trattato, si legge.
Molto personale nei
giudizi, come sempre, da apprendista scrittore, apprendista pensatore, apprendista entomologo – uno stendhaliano Grande Dilettante. La grande letteratura dice
liberatoria. E poi la trova nei diari di Peter Moen, un norvegese marcito nelle
prigioni di Hitler, “discendente spirituale di Kierkegaard”. O nelle lettere
del conte Moltke… E: “Il ribelle ha per divisa: hic et nunc, perché è l’uomo dei colpi di mano, libero e indipendente”. Ma anche: il Ribelle è l’individuo
concreto, che agisce nel caso concreto. Imprevedibile, visibile ma imprendibile. Con note acute, fulmini, sul linguaggio, sullo spirito. Se non che il cap. XXIX sembra il manuale di Gladio, l’organizzazione paramilitare
segreta anticomunista in Italia nel dopoguerra. O, in altra temperie, “bisogna essere
liberi per diventarlo, perché la libertà è esistenza”.
Oppure: l’obiettivo
è “fuggire i deserti dei sistemi tradizionalisti e managerialisti”, benché sempre
“prigionieri della loro dialettica”. Come? “È qui che si delinea la possibilità
di un nuovo monarchismo”…
Si legge Jünger perché
è scrittore: sorprendente, stimolante. Qui è difficile, ma regge anche la proposta editoriale falsata – derivata probabilmente dalla traduzione francese di un decennio
prima, di Henri Plard.
Ernst Jünger,
Il trattato del ribelle, Adelphi, pp. 136 € 12
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