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La tolleranza può essere oppressiva
La tolleranza come
un altro modo della repressione – nella terminologia italica il paternalismo.
Marcuse interviene nell’ambito della critica allora in corso del riformismo,
che veniva denunciato dalla New Left come una forma della repressione e non una
via di liberazione.
Riletto come vuole
la riedizione, come un’anticipazione del conformismo dei social, sotto la veste
ribellistica, sarebbe interessante, ma non ne ha il respiro: i social non sono
“riformisti”, sono il bar Sport. A un certo punto, Marcuse individua il
problema quale si pone oggi: “Entro la democrazia affluente prevale la
discussione affluente, ed entro la struttura stabilita essa è tollerante in larga
misura. Tutti i punti di vista possono essere ascoltati, i comunisti e i
fascisti, la sinistra e la destra, il bianco e il negro, i crociati dell’armamento
e quelli del disarmo. Inoltre, in dibattiti strascicati senza fine, l’opinione
stupida è trattata con lo stesso rispetto di quella intelligente, la mal
informata può parlare quanto quella informata e la propaganda cavalca al passo
con l’educazione, il vero col falso”. Ma non lo risolve: la gente, si limita a
dire (Marcuse risulta qui fare appello alla “gente”, senza le virgolette, ma nel
suo caso l’inglese people s’intende popolo) deve essere in grado di
scegliere, autonomamente, eccetera.
Tema del saggio, partendo
da Stuart Mill e dall’intolleranza – “l’intolleranza ha rimandato il progresso
e ha provocato massacri d’innocenti per centinaia d’anni” – è: e la tolleranza?
“Ci sono condizioni storiche in cui la tolleranza impedisce la liberazione e
moltiplica le vittime che vengono sacrificate allo status quo? La garanzia
indiscriminata di diritti politici e libertà può essere repressiva?” La risposta
ovviamente è sì. Ma dopo mezzo secolo non è persuasiva – la democrazia, per
quanto mal funzionante, non è una dittatura, un regime, o uno sfascio. Anche se
gli abusi sono possibili, e anzi si vedono, soprattutto nel ganglio delicato della
formazione dell’opinione pubblica, del giudizio di ognuno.
La conclusione, se
non lo sviluppo, è netta e, questa sì, critica di assetti oggi perfino esageratamente
veri, con le tante correttezze minoritarie e iperminoritarie con cui si
esercita la tolleranza - ci si gingilla a copertura di un assetto affaristico,
distruttivo. Con l’esito, non surrettizio, di relegarla a un’iperrealtà
imbelle, e insieme di promuoverne il rifiuto. “La pubblicità dell’autorealizzazione”
promuove “un’immediatezza” che è “cattiva immediatezza” (Hegel): “Incoraggia il
noncoformismo e il lasciar fare in modi che lasciano interamente intatti i
motori reali della repressione nella società, che anzi rafforzano questi motori
sostituendo le soddisfazione della ribellione privata e personale” alla “esistenza
politica”. La conclusione è paleomarxista ma evidente: “La tolleranza che fu la
grande meta dell’era liberale viene ancora professata”, ma il processo
economico e politico è soggetto ad un’amministrazione onnipresente ed effettiva
in accordo con gli interessi predominanti”. A quello che si dice - si diceva? -
il pensiero unico, degli affari.
A cura di Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio, un saggio, ripreso
da “Giovane Critica” del 1967, parte del volume “A Critique of Pure
Tolerance”, 1965, un titolo che vuole ripetere Kant, di Barrington Moore jr.,
H. Marcuse e Robert Paul Wolff. Un volume composto di tre saggi, “Al di là
della tolleranza” (Wolff), e “Tolleranza e Scienza” (Barrington Moore jr.),
prima di questo di Marcuse – che in originale è titolato “La tolleranza
repressiva”. Dell’edizione di Mughini è rimasto, oltre l’incerta traduzione, un
rimando a una p. 82, che nell’edizione originale corrisponde alla seconda
pagina del saggio, la 6 di questo estratto.
Herbert Marcuse, Critica
della tolleranza, Mimesis, pp. 44 € 3,90
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