venerdì 21 gennaio 2022

Letture - 478

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Ariosto - È il precursore di Cervantes, del declino della cavalleria – della sazietà di epopee cavalleresche? È un lampo di Ernst Jünger, nelle noterelle del 1951 “Polarisations am Kieselstrand”, sulla spiaggia dei ciottoli, scritte nell’estate del 1951 a Antibes (sulla plage des Galets), dove ricorda che anticipò l’avvento delle armi da fuoco.
È la funzione del poeta, di far accadere il futuro anticipandolo, ma Jünger dice di più nel caso di Ariosto, che il futuro fa anticipare da uno che ne sarà vittima: “È in questo senso che Ariosto fa apparire nel suo poema l’arma da fuoco, prima della sua scoperta, come segno anticipatore del declino della cavalleria”.
 
Borghesia – Sciascia ne fa la classe della virtù – “Fuoco all’anima”, 83: “La borghesia è una classe, così come uscirà dalla Rivoluzione francese, dedita alla virtù. E dedita anche alla moltiplicazione delle ricchezze… Voltaire, ad esempio, sente l’orgoglio della ricchezza. C’è una lettera in cui elenca i suoi beni e dice: «Il mio povero collega Rousseau fa la fame»”.
 
Capro espiatorio – Più semplice dell’antropologo e filosofo Girard, lo fa spiegare Primo Levi in “Se non ora, quando?” a uno dei personaggi, l’orologiaio ebreo Mendel: “Un tempo, nel giorno dei perdoni, gli ebrei prendevano un caprone; il sacerdote gli premeva le mani sul capo, gli enumerava tutte le colpe commesse dal popolo e gliele imponeva addosso: il colpevole era lui e solo lui. Poi, carico dei peccati che non aveva commesso, lo cacciavano nel deserto. Così pensano anche i gentili, anche loro hanno un agnello che si porta via i peccati del mondo”.
 
Doppiezza - È di sinistra, spiega Sciascia (Fuoco all’anima”, 63), lamentando “la doppiezza della vita italiana”, della vita in genere, non solo di quella politica: “È un malcostume da addebitare soprattutto alle sinistre. Si dice una cosa in privato e se ne dice un’altra – l’opposto – in pubblico”. E con l’interlocutore che gli obietta essere le sinistre in via di estinzione (nel 1989….) insiste: “Ormai il danno è fatto, è entrato a far parte del costume italiano”.

Anna Frank – La denuncia dei Frank fu dunque opera del notaio Arnold van den Bergh, ebreo, membro del Consiglio ebraico di Amsterdam, anzi della commissione del Consiglio che doveva selezionare i nomi degli ebrei da inserire nelle liste di deportazione, in teoria ai lavori forzati.

C’è, in questa denuncia come in altre attività imposte agli ebrei dal nazismo, una sorta di complicità che Primo Levi in qualche modo giustificava, ne “I sommersi e i salvati” - a proposito della “zona grigia”, la nozione elaborata dallo storico olandese Jacob Presser: “È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema demoniaco, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le sporca, le assimila a sé”. Ma fino a un certo punto. E poi c’è chi si ribella - e lo ha fatto, dentro a fuori della Germania.
Anche nel rastrellamento del ghetto di Roma il 16 ottobre 1943, c’era di mezzo, sia pure marginalmente, una giovane ebrea, Celeste Di Porto, la “Pantera Nera”, fidanzata di un poliziotto, al quale aveva denunciato parecchie famiglie del ghetto. L’etnia non era allora sentita, non in modo eminente, malgrado le leggi razziali del 1938.

Primo Levi – Nel tardo romanzo “Se non ora, quando?”, il suo unico romanzo, 1982, cinque anni prima della morte suicida, Primo Levi fa spiegare a un personaggio incidentale, una Francine francese salvata dal lager, il disagio che traspare in ogni suo scritto, del “salvato”: “In Lager nessuno si uccideva. Non c’era tempo, c’era altro da pensare, al pane, ai foruncoli. Qui c’è tempo, e la gente si uccide. Anche per la vergogna”. “Quale vergogna? - chiese Line: - Si ha vergogna di una colpa e loro non hanno colpa”. “Vergogna di non essere morti – disse Francine. – Ce l’ho anch’io. È stupido ma è così. È difficile spiegarla. È l’impressione che gli altri siano morti al tuo posto; di essere vivi gratis, per un privilegio che non hai meritato, per un sopruso che hai fatto ai morti. Essere vivi non è una colpa, ma noi la sentiamo come una colpa”.
Francine poi scompare, e parla di colpa e suicidi appena salvata dal lager, quindi ancora in cenci e a rischio vita. Per molti aspetti, una copia di Primo Levi. È una dottoressa, anche se “in Lager non aveva potuto esercitare il suo mestiere perché non sapeva bene il tedesco”, “non parlava jiddish, non lo capiva, e quando era a Parigi non sapeva neppure che lingua fosse”, in realtà a Parigi non si sentiva “ebrea”, cioè diversa, un po’ come lo stesso Levi prima della deportazione, e “aveva ancora i capelli, come dottoressa non glieli avevano tagliati, i tedeschi hanno regole precise”.
 
Molière – È dimenticato, non più rappresentato, da anni, ma è, si direbbe, d’attualità più che mai, col “Medico per forza” e anche col “Malato imaginario”: le sue scene sembrano tratte dai talk-show che imperversano, o viceversa. Lo ricorda Marino Niola sul “Venerdì di Repubblica”, per quei suoi “dottori boriosi, paludati, arroganti e saccenti”, che “si affrontano a colpi di citazioni latine”  Per épater le bourgeois, come usava, per sorprendere, tramortire i bravi borghesi. La pandemia è stata mortale, ma è anche molieriana.
“Molière è un monumento d’ironia”, Sciascia, “Fuoco all’anima” 108.
 
Parigi – Non solo Calvino, anche Sciascia si era stabilito a Parigi, nel 1977. Anche Miriam Mafai. Per sfuggire al disordine italiano – rappresentato, paradossalmente, dal compromesso storico, Moro sarà rapito l’anno dopo? Per via di un immobiliarista specialmente abile?
 
E.A.Poe – “Lo straordinario, in questo spirito, è la sua sobrietà” - Jünger, “Trattato del ribelle”, lo vuole esemplare: “Sentiamo il tema prima ancora che il sipario si alzi, e sappiamo dalle, prime  misure che lo spettacolo diventerà soffocante”. Di “austerità matematica”. E di densità: “Le figure sono in lui figure del destino, ciò che le riveste di una magia senza eguali”.
 
Sciascia – Wikipedia lo ascrive al Partito Comunista Italiano.
La polemica di Sciascia col Pci fu continua e anche astiosa – ebbe solo rapporti con Antonello Trombadori, per essere entrambi collezionisti d’arte, e con Emanuele Macaluso, federale atipico del Pci in Sicilia. Nelle conversazioni che ebbe nelle ultime settimane di vita con Domenico Porzio e ora si ripubblicano (“Fuoco all’anima”), è molto negativo, addebitando al Pci la “doppiezza”, e la “confusione” politica. 
 
Settecento – Un teatro, e quindi un tempo di speranza? È l’opinione di Sciascia, “Fuoco all’anima”, 78: “Il Settecento era un’epoca di grande speranza… Anche Manzoni è un figlio del Settecento, come Stendhal”.
E ancora, 79-80: “Il Settecento è un gran secolo anche per questo: perché l’amore è solo un gioco di gioia, nient’altro. I corpi, l’incontro dei corpi. Ci fossero o non delle remore, la cosa era vissuta senza tormentosa passione. Nel Settecento la vita si era costituita in finzione. Una recita, una rappresentazione”.
 
Tucidide – “Un disegnatore, a spese di Erodoto” – Ernst Jünger, “Polarisations Am Kieselstrand”: “In un mondo in cui i daltonici dessero il tono, i grigi prevarrebbero”.
 
Vangelo – È di giovani – per i giovani? Domenico Porzio, scrittore di fede, lo nota in conversazione con Sciascia, nella lunga intervista “Gli anni delle passioni fredde”, pubblicata sul “Corriere della sera” il 19 luglio 1987 (in realtà una serie di considerazioni di Porzio, intervallate da incisi di Sciascia), sul tema della vecchia, “de senectute”: “Il Vangelo è abitato da giovani, con rare eccezioni: Elisabetta, Zaccaria, non necessariamente i Magi; e c’è l’infermo della piscina di Betzata, se era paralitico da trentotto anni. Gesù predilige i bambini”.  
 
Vittorini - Venuto a parlare di Vittorini con Domenico Porzio, in “Fuoco all’anima”, Sciascia dice che non regge la rilettura: “Il Vittorini industriale è finito. Non che sia granché”, aggiunge, “il Vittorini siciliano, bisogna riconoscerlo”. Nemmeno il primo libro?, chiede Porzio. “A me cascano le braccia”. È il Vittorini di “Conversazione in Sicilia”.

letterautore@antiit.eu

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