Letture - 478
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Ariosto - È il precursore di
Cervantes, del declino della cavalleria – della sazietà di epopee
cavalleresche? È un lampo di Ernst Jünger, nelle noterelle del 1951 “Polarisations
am Kieselstrand”, sulla spiaggia dei ciottoli, scritte nell’estate del 1951 a
Antibes (sulla plage des Galets), dove ricorda che anticipò l’avvento delle
armi da fuoco.
È la funzione del poeta, di far accadere
il futuro anticipandolo, ma Jünger dice di più nel caso di Ariosto, che il
futuro fa anticipare da uno che ne sarà vittima: “È in questo senso che Ariosto
fa apparire nel suo poema l’arma da fuoco, prima della sua scoperta, come segno
anticipatore del declino della cavalleria”.
Borghesia – Sciascia ne fa
la classe della virtù – “Fuoco all’anima”, 83: “La borghesia è una classe, così
come uscirà dalla Rivoluzione francese, dedita alla virtù. E dedita anche alla
moltiplicazione delle ricchezze… Voltaire, ad esempio, sente l’orgoglio della
ricchezza. C’è una lettera in cui elenca i suoi beni e dice: «Il mio povero collega
Rousseau fa la fame»”.
Capro espiatorio – Più semplice dell’antropologo
e filosofo Girard, lo fa spiegare Primo Levi in “Se non ora, quando?” a uno dei
personaggi, l’orologiaio ebreo Mendel: “Un tempo, nel giorno dei perdoni, gli
ebrei prendevano un caprone; il sacerdote gli premeva le mani sul capo, gli
enumerava tutte le colpe commesse dal popolo e gliele imponeva addosso: il colpevole
era lui e solo lui. Poi, carico dei peccati che non aveva commesso, lo
cacciavano nel deserto. Così pensano anche i gentili, anche loro hanno un agnello
che si porta via i peccati del mondo”.
Doppiezza - È di sinistra,
spiega Sciascia (Fuoco all’anima”, 63), lamentando “la doppiezza della vita
italiana”, della vita in genere, non solo di quella politica: “È un malcostume
da addebitare soprattutto alle sinistre. Si dice una cosa in privato e se ne
dice un’altra – l’opposto – in pubblico”. E con l’interlocutore che gli obietta
essere le sinistre in via di estinzione (nel 1989….) insiste: “Ormai il danno è
fatto, è entrato a far parte del costume italiano”.
Anna Frank – La denuncia dei Frank fu dunque opera del notaio Arnold van den Bergh, ebreo, membro del Consiglio ebraico di Amsterdam, anzi della commissione del Consiglio che doveva selezionare i nomi degli ebrei da inserire nelle liste di deportazione, in teoria ai lavori forzati.
C’è, in questa denuncia come in altre attività imposte agli ebrei dal nazismo, una sorta di complicità che Primo Levi in qualche modo giustificava, ne “I sommersi e i salvati” - a proposito della “zona grigia”, la nozione elaborata dallo storico olandese Jacob Presser: “È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema demoniaco, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le sporca, le assimila a sé”. Ma fino a un certo punto. E poi c’è chi si ribella - e lo ha fatto, dentro a fuori della Germania.
Anche nel rastrellamento del ghetto di Roma il 16 ottobre 1943, c’era di mezzo, sia pure marginalmente, una giovane ebrea, Celeste Di Porto, la “Pantera Nera”, fidanzata di un poliziotto, al quale aveva denunciato parecchie famiglie del ghetto. L’etnia non era allora sentita, non in modo eminente, malgrado le leggi razziali del 1938.
Primo Levi – Nel tardo
romanzo “Se non ora, quando?”, il suo unico romanzo, 1982, cinque anni prima
della morte suicida, Primo Levi fa spiegare a un personaggio incidentale, una
Francine francese salvata dal lager, il disagio che traspare in ogni suo
scritto, del “salvato”: “In Lager nessuno si uccideva. Non c’era tempo, c’era
altro da pensare, al pane, ai foruncoli. Qui c’è tempo, e la gente si uccide. Anche
per la vergogna”. “Quale vergogna? - chiese Line: - Si ha vergogna di una colpa
e loro non hanno colpa”. “Vergogna di non essere morti – disse Francine. – Ce l’ho
anch’io. È stupido ma è così. È difficile spiegarla. È l’impressione che gli
altri siano morti al tuo posto; di essere vivi gratis, per un privilegio che
non hai meritato, per un sopruso che hai fatto ai morti. Essere vivi non è una
colpa, ma noi la sentiamo come una colpa”.
Francine poi scompare, e parla di colpa e
suicidi appena salvata dal lager, quindi ancora in cenci e a rischio vita. Per
molti aspetti, una copia di Primo Levi. È una dottoressa, anche se “in Lager
non aveva potuto esercitare il suo mestiere perché non sapeva bene il tedesco”,
“non parlava jiddish, non lo capiva, e quando era a Parigi non sapeva neppure
che lingua fosse”, in realtà a Parigi non si sentiva “ebrea”, cioè diversa, un
po’ come lo stesso Levi prima della deportazione, e “aveva ancora i capelli,
come dottoressa non glieli avevano tagliati, i tedeschi hanno regole precise”.
Molière – È dimenticato, non più rappresentato,
da anni, ma è, si direbbe, d’attualità più che mai, col “Medico per forza” e
anche col “Malato imaginario”: le sue scene sembrano tratte dai talk-show che
imperversano, o viceversa. Lo ricorda Marino Niola sul “Venerdì di Repubblica”,
per quei suoi “dottori boriosi, paludati, arroganti e saccenti”, che “si affrontano
a colpi di citazioni latine” Per épater
le bourgeois, come usava, per sorprendere, tramortire i bravi borghesi. La
pandemia è stata mortale, ma è anche molieriana.
“Molière è un monumento d’ironia”, Sciascia,
“Fuoco all’anima” 108.
Parigi – Non solo Calvino, anche Sciascia
si era stabilito a Parigi, nel 1977. Anche Miriam Mafai. Per sfuggire al disordine
italiano – rappresentato, paradossalmente, dal compromesso storico, Moro sarà
rapito l’anno dopo? Per via di un immobiliarista specialmente abile?
E.A.Poe – “Lo straordinario, in questo spirito,
è la sua sobrietà” - Jünger, “Trattato del ribelle”, lo vuole esemplare:
“Sentiamo il tema prima ancora che il sipario si alzi, e sappiamo dalle, prime misure che lo spettacolo diventerà soffocante”.
Di “austerità matematica”. E di densità: “Le figure sono in lui figure del
destino, ciò che le riveste di una magia senza eguali”.
Sciascia – Wikipedia lo
ascrive al Partito Comunista Italiano.
La polemica di Sciascia col Pci fu
continua e anche astiosa – ebbe solo rapporti con Antonello Trombadori, per
essere entrambi collezionisti d’arte, e con Emanuele Macaluso, federale atipico
del Pci in Sicilia. Nelle conversazioni che ebbe nelle ultime settimane di vita
con Domenico Porzio e ora si ripubblicano (“Fuoco all’anima”), è molto negativo,
addebitando al Pci la “doppiezza”, e la “confusione” politica.
Settecento – Un teatro, e
quindi un tempo di speranza? È l’opinione di Sciascia, “Fuoco all’anima”, 78: “Il
Settecento era un’epoca di grande speranza… Anche Manzoni è un figlio del Settecento,
come Stendhal”.
E ancora, 79-80: “Il Settecento è un gran
secolo anche per questo: perché l’amore è solo un gioco di gioia, nient’altro. I
corpi, l’incontro dei corpi. Ci fossero o non delle remore, la cosa era vissuta
senza tormentosa passione. Nel Settecento la vita si era costituita in finzione.
Una recita, una rappresentazione”.
Tucidide – “Un disegnatore, a spese di
Erodoto” – Ernst Jünger, “Polarisations Am Kieselstrand”: “In un mondo in cui i
daltonici dessero il tono, i grigi prevarrebbero”.
Vangelo – È di giovani – per i
giovani? Domenico Porzio, scrittore di fede, lo nota in conversazione con
Sciascia, nella lunga intervista “Gli anni delle passioni fredde”, pubblicata sul
“Corriere della sera” il 19 luglio 1987 (in realtà una serie di considerazioni
di Porzio, intervallate da incisi di Sciascia), sul tema della vecchia, “de
senectute”: “Il Vangelo è abitato da giovani, con rare eccezioni: Elisabetta,
Zaccaria, non necessariamente i Magi; e c’è l’infermo della piscina di Betzata,
se era paralitico da trentotto anni. Gesù predilige i bambini”.
Vittorini - Venuto a
parlare di Vittorini con Domenico Porzio, in “Fuoco all’anima”, Sciascia dice
che non regge la rilettura: “Il Vittorini industriale è finito. Non che sia granché”,
aggiunge, “il Vittorini siciliano, bisogna riconoscerlo”. Nemmeno il primo libro?,
chiede Porzio. “A me cascano le braccia”. È il Vittorini di “Conversazione in Sicilia”.
letterautore@antiit.eu
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