Letture - 479
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Arabo – “È sorprendente, arrivando in
Occidente, sentirsi chiamare «arabo»: non si tratta di una nazionalità, è a
malapena una cultura comune, uno sguardo”, spiega lo scrittore algerino Kamel
Daoud a Alessandra Coppola, “La Lettura”, 23 gennaio: “È come se io arrivassi
in Europa e vi chiamassi «cristiani»… L’arabo non esiste che ai vostri occhi, è
un concetto, una geografia fantasma”.
Se non che l’Algeria si è dichiarata
“arabofona”, da bilingue che era. La Tunisia pure.
Comunisti – “Gente incapace
di governare, sapeva solo opporsi”, Sciascia, “Fuoco all’anima”, 115: “A un
certo punto il Partito comunista ha rinunciato anche a opporsi ed è diventato
niente”.
Sciascia lo dice a proposito dello
stalinismo: “La persona più stupida che ho incontrato nella mia vita è stata,
posso dire, Robotti”. Paolo Robotti, il cognato di Togliatti, che i sovietici
picchiarono tanto da lasciarlo invalido, ne scrisse nel dopoguerra l’agiografia,
“In Russia si vive così” -
senza botte. Sciascia lo ricorda spiegando che nel suo primo libro, “Le
parrocchie di Regalpetra”, era Robotti “l’uomo che viene a Racalmuto, tiene un
comizio e spiega ai contadini che cos’è il kolchoz, ossia una specie di
paradiso. I contadini erano vessati dall’ammasso obbligatorio”, il kolchoz
fatalmente assimilando all’ammasso, ed “è allora che il Partito comunista tocca
il punto più basso di voti. Nel 1948. Questo è uno stupido integrale”. Anche se
Robotti non parlava a Racalmuto da solo: venendo da Roma, mandato dal partito,
si sintonizzava con gli iscritti locali per sintonizzarsi sui temi da trattare.
Anche Miriam Mafai, in “Una vita quasi due”,
ricorda nel 1948 comizi aberranti in Sicilia, suoi e di altre compagne
giovanissime, mandate a parlare di cose che non sapevano a gente che non
intendeva – i pochi che ascoltavano i comizi.
Dante - Antisemita? “Dante fu dunque a
nostro parere certamente antisemita, di quell’antisemitismo coltivato dal
cristianesimo fino al Concilio Vaticano II”, Pierre Antonetti, il corso
italianista all’università di Aix-Marsiglia, “La vita quotidiana a Firenze al
tempo di Lorenzo il Magnifico”. Contradicendosi con la sua stessa “Vita
quotidiana a Firenze al tempo di Dante”, 1979, una dozzina d’anni prima. Dante
conosceva la storia degli ebrei, vi spiegava, nel “De vulgari eloquentia”, ne
studiava la lingua, facendo derivare il nome da Eber, ed elevandola a più
antica lingua dell’umanità. Nella “Commedia” colloca Caifa all’“Inferno”, e
nomina Giudecca, con riferimento al quartiere ebraico di Venezia, come luogo di
punizione di chi tradisce i benefattori e l’autorità divina. Nel “Purgatorio” nomina due ebrei tra gli
accidiosi. Nel “Paradiso” attornia Beatrice di figure bibliche: Rachele,
simbolo della vita contemplativa, Sara, Rebecca, Giuditta e Ruth.
I primi ebrei di cui si ha notizia a
Firenze sono di fine Trecento, provenienti da Pisa, Lucca e Siena. “Nel 1427,
l’anno del catasto”, scrive peraltro lo stesso Antonetti, “un piccolo gruppo di
prestatori ebrei si era stabilito in alcuni centri del distretto o della periferia
del contado, ma non ancora a Firenze”. In tutto “una decina di famiglie”, “meno
di sessanta persone”, disperse tra “Pisa, Pescia, Pistoia, Prato, Castel Fiorentino,
Volterra, Arezzo, e San Miniato”, non ricche poiché “i loro beni sfuggivano al
catasto”. In totale, banchieri e non, “si può calcolare che meno di 300 Ebrei
vivessero in tutta la Toscana fiorentina di quell’epoca”, cioè di un secolo abbondante
dopo Dante.
Darwinismo – Ripugna a Sciascia,
che lo rifiuta a proposito di Teilhard de Chardin, il teologo cattolico che
aveva provato a conciliato la chiesa con l’evoluzionismo: “Pensare alla natura
che si fa da sé mi dà una certa ripugnanza” - “Fuoco all’anima”, 53. Poi Sciascia
precisa: “Non amo il darwinismo provvidenziale. Il darwinismo con l’intervento
della Provvidenza (Teilhard de Chardin, n.d.r.). Ancora di più m’infastidisce
la mescolanza tra Dio e natura. Pensare che il pesce abbia avuto in sé una
volontà di diventare uomo”.
Doppiezza – “Nella vita italiana
è un malcostume da addebitare soprattutto alle sinistre. Si dice una cosa in
privato e se ne dice un’altra - il contrario – in pubblico” – Leonardo Sciascia,
“Fuoco all’anima”, 144.
Il linguaggio politico italiano è di sinistra
– anche a destra.
Ebraismo – Primo Levi ha, in “Se non ora,
quando?”, un personaggio che identifica così: “Palev Jurevič Levinski teneva
molto al suo patronimico, e meno al suo cognome troppo rivelatore: lui era un
russo ebreo, non un ebreo russo”. È quello che Levi diceva di sé: “Sono per
quattro quinti italiano, e per un quinto ebreo”. Nel senso che era cresciuto in
una famiglia non praticante, ma pur sempre ebrea di origine. Distinzione che
non è rimasta, non si perpetua, per altre origini, per esempio dei tanti arabi
mussulmani, specie nell’Italia meridionale, che pure ebbero i nomi originari
quando nelle “nazioni” europee maturò l’anagrafe moderna, verso la metà dell’Ottocento,
fuori cioè dei registri parrocchiali (nascite, morti, matrimoni).
Nelle interviste, ora raccolte in
“Conversazioni e interviste”, in più casi Primo Levi spiega di sentirsi italiano,
anzi piemontese, e ebreo solo per acquisizione posteriore – “Poiché i miei genitori
son ebrei”, spiega a Germaine Greer, “mi sono costruito una cultura ebraica, ma
molto tardi, dopo la guerra”, facendo però sempre a meno della religione.
Sbalordito si dice della tournée americana organizzatagli dagli
editori, dove gli capitava di parlare solo a ebrei, come se in America non ci
fossero che ebrei – e in un caso davanti a ebrei ortodossi come lui non immaginava,
con l’esito di scatenare una forte contestazione e quasi una rissa quando aveva
criticato l’intervento di Israele in Libano.
Giallo – Sciascia lo vuole “soprattutto
più onesto” – “Fuoco all’anima”, 104. E pirandelliano – o della “tragedia greca
calata nel romanzo poliziesco”, con la formula usata da Malraux “quando parla
di ‘Santuario’ di Faulkner”. Lui,
spiega, lo ha praticato mettendo assieme “Pirandello con i suoi problemi
esistenziali” insieme con “i morti ammazzati nei luoghi dove io vivevo”.
Savinio – Apprezzato e rilanciato da Borgese, Sciascia,
Pedullà – curiosamente: da letterati meridionali.
È anche musicista
di valore, se John Cage lo apprezzava, come il musicologo Michele Porzio attesta,
ma per questo non ha trovato mallevadore.
Scrivere – È allegria. Sciascia
affaticato in dialisi ha “l’allegria della scrittura”. A Porzio che gli chiede:
“Scrivere, inventare, non è una fatica?”, risponde (“Fuoco all’anima”, 122):
“No, io lo trovo un riposo, un piacere, un divertimento. Quale che sia la materia,
triste o disperata. Per me scrivere è una cosa allegra”.
Dice anche: “Scrivere è sempre un atto di
speranza”. Anche se non c’è una fede? “La speranza sta nel fatto di scrivere.
Perché non c’è pessimismo definitivo quando lo si scrive ”.
Verga – “Provate a leggere «I
Malavoglia» come la serie tv «Succession»: tutti vogliono cambiare le cose. Ma
anche se si fallisce, quel che conta è aver deciso”. Questo è Verga celebrato sul “Robinson”.
La serie tv “Succession”?
“A voler cercare il vero nel verismo, quel
che più somiglia alla tragedia della Provvidenza, raccontata nel romanzo «I
Malavoglia», è il naufragio della Costa Concordia”, Francesco Merlo. Cioè, una
tragedia o la stupidità?
Nato a Vizzini, 600 metri sul mare, un
paese “in cima al colle, arrampicato sui precipizi, disseminato fra rupi
enormi, minato d a caverne che lo lasciavano come sospeso in aria, nerastro,
rugginoso”, la Fondazione Verga lo fa invece nato a Catania, città di studi e
di commerci, antica capitale.
letterautore@antiit.eu
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