L’amico del protagonista,
l’unico, “ha il panico delle iniezioni”. È stato vittima del terrorismo arabo
di Atocha, la metropolitana di Madrid, con centinaia di morti, amputato, e si
diffonde con disinvoltura su tutte le atrocità di cui legge nel mondo, ma ha
“il terrore degli aghi”. C’è insomma anche un prospettivo no wax. Fra le altre
occorrenze, piccole, minime e grandi della vita quotidiana. Che il
protagonista, uomo senza qualità fra i tanti, ripercorre una volta che ha
deciso di morire – si ucciderà tra un anno, il 31 luglio, un mercoledì, di
sera.
Toni inganna il
tempo rimemorando, mese dopo mese, nelle sue stracche giornate di insegnante di
Filosofia al liceo, divorziato, “triste e solo, con addosso una sensazione di
sconfitta”, con la cagnetta Pepa, e con Tina, amante rassegnata di plastica, di
tanto in tanto con l’amico no wax, che ha deciso di seguirlo nella sua
determinazione della morte certa. Il padre, la madre, la moglie, i suoceri, il
fratello, il figlio, che ogni tanto rivede. E la sua prima fidanzata, brutta e
simpatica, che gli tocca rivedere. Incorre anche in un torturatore del
franchismo, “Billy the Kid”, che ha rotto la faccia al suo padre trinariciuto, che
riceve un’assurda onorificenza dalla Spagna democratica – un personaggio vero,
Antonio Antonio González Pacheco, morto ultimamente di covid, a 73 anni, che
dunque negli anni di Franco ne aveva una ventina…
Un “uomo pianura”,
senza spessore, senza progetto, senza reali sentimenti. Ma buon narratore, non
lagnoso. È uno che, come il Nobel Parisi dagli storni, è affascinato dai
rondoni che “vanno, vengono, si incrociano nell’aria a tutta velocità e non
c’è verso di racchiuderli in un numero”.
Scherzoso spesso,
anche triviale. Nelle scene di sesso d’obbligo ogni ventina di pagine. Nelle
frasi famose di cui tiene il quadernetto (di Camus, “C’è soltanto un problema
filosofico davvero serio: il suicidio”…). Nei personaggi che non ama: gli
indipendentisti catalani, la lesbica (la “padrona” lesbica della ex moglie), le
famiglie. Nei non-eventi a cui la decisione di morire riduce la vita giorno per
giorno. Un po’ ripetitivo. Anche confuso – “ho vissuto come una vessazione
incessante la relazione intima con una donna intelligente”, mentre per tutta la
narrazione è lei che è ingrata e oppressiva, sfruttatrice (una delle scene
esilaranti è quando si fa spalleggiare dal marito per liberarsi dalla
“padrona” di letto), furba.
Forte del successo
del fluviale “Patria”, Aramburu si ripete. Di lettura anche questo non ardua,
uno spaccato, involontario?, della vita quotidiana oggi, in città, in Europa:
dei giovani incerti, sporchicci, inetti,
dell’affetto per gli animali esclusivo, dell’incapacità di
ascoltarsi-osservarsi e di comprendersi, col padre, la madre, il fratello, il
coniuge, dell’amicizia ristretta, abitudinaria, della politica assente. Il cane
ha la buona morte, l’uomo no, è la sua verità meno banale. Centinaia di
aneddoti veri o inventati assembla che sono (funzionano) come un teatrino delle
nostre azioni e riflessioni quotidiane, ordinarie, rimuginazioni, specie di
quelle familiari.
Una lettura
scorrevole, agevolata forse dalla traduzione di Bruno Arpaia (ma “L’inconclusa”
di Schubert, per “L’incompiuta”?)
Fernando Aramburu,
I rondoni, Guanda, pp. 713 € 22
Toni inganna il tempo rimemorando, mese dopo mese, nelle sue stracche giornate di insegnante di Filosofia al liceo, divorziato, “triste e solo, con addosso una sensazione di sconfitta”, con la cagnetta Pepa, e con Tina, amante rassegnata di plastica, di tanto in tanto con l’amico no wax, che ha deciso di seguirlo nella sua determinazione della morte certa. Il padre, la madre, la moglie, i suoceri, il fratello, il figlio, che ogni tanto rivede. E la sua prima fidanzata, brutta e simpatica, che gli tocca rivedere. Incorre anche in un torturatore del franchismo, “Billy the Kid”, che ha rotto la faccia al suo padre trinariciuto, che riceve un’assurda onorificenza dalla Spagna democratica – un personaggio vero, Antonio Antonio González Pacheco, morto ultimamente di covid, a 73 anni, che dunque negli anni di Franco ne aveva una ventina…
Un “uomo pianura”, senza spessore, senza progetto, senza reali sentimenti. Ma buon narratore, non lagnoso. È uno che, come il Nobel Parisi dagli storni, è affascinato dai rondoni che “vanno, vengono, si incrociano nell’aria a tutta velocità e non c’è verso di racchiuderli in un numero”.
Scherzoso spesso, anche triviale. Nelle scene di sesso d’obbligo ogni ventina di pagine. Nelle frasi famose di cui tiene il quadernetto (di Camus, “C’è soltanto un problema filosofico davvero serio: il suicidio”…). Nei personaggi che non ama: gli indipendentisti catalani, la lesbica (la “padrona” lesbica della ex moglie), le famiglie. Nei non-eventi a cui la decisione di morire riduce la vita giorno per giorno. Un po’ ripetitivo. Anche confuso – “ho vissuto come una vessazione incessante la relazione intima con una donna intelligente”, mentre per tutta la narrazione è lei che è ingrata e oppressiva, sfruttatrice (una delle scene esilaranti è quando si fa spalleggiare dal marito per liberarsi dalla “padrona” di letto), furba.
Forte del successo del fluviale “Patria”, Aramburu si ripete. Di lettura anche questo non ardua, uno spaccato, involontario?, della vita quotidiana oggi, in città, in Europa: dei giovani incerti, sporchicci, inetti, dell’affetto per gli animali esclusivo, dell’incapacità di ascoltarsi-osservarsi e di comprendersi, col padre, la madre, il fratello, il coniuge, dell’amicizia ristretta, abitudinaria, della politica assente. Il cane ha la buona morte, l’uomo no, è la sua verità meno banale. Centinaia di aneddoti veri o inventati assembla che sono (funzionano) come un teatrino delle nostre azioni e riflessioni quotidiane, ordinarie, rimuginazioni, specie di quelle familiari.
Una lettura scorrevole, agevolata forse dalla traduzione di Bruno Arpaia (ma “L’inconclusa” di Schubert, per “L’incompiuta”?)
Fernando Aramburu, I rondoni, Guanda, pp. 713 € 22
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