domenica 2 gennaio 2022

Secondi pensieri - 468

zeulig
 
Complotto - L’idea del complotto può dirsi una forma di gelosia, e la gelosia una forma di delusione, verso sé stessi e quindi verso gli altri. Ingenera il sospetto una certa dose d’ipocondria, in due forme. L’idea costante che gli altri tradiscono e vogliono il nostro male. E l’incapacità altrettanto co-stante degli altri e di noi stessi di essere all’altezza delle ambizioni. Freud non ne ha parlato, il genio maligno. Proust sicuramente sì, nell’interminabile labirinto della gelosia, la propensione, come la dice da qualche parte, a “formulare sospetti atroci su fatti inconsistenti”. Ma i fatti non hanno bisogno di interpretazioni, non se si vuole uscire dalla paranoia.
O c’è bisogno di un complotto? Sia pure di quello hegeliano della ragione: la maggior parte degli eventi non ha un fine. L’influenza per esempio, che a tutti occorre. Il cancro no, vuole uccidere. L’influenza non ha neanche una causa, a differenza del raffreddore. Che per questo a volte acquista anche un fine, più rapido del cancro: la maggior parte dei decessi in ospedale avviene per complicazioni broncopolmonari. I degenti vi sono accuditi con generosità di personale e di risorse, finché un giorno la finestra aperta per cambiare l’aria si porta via il più indifeso. Non ci si protegge dal caso, e allora un po’ di causalità, per quanto perversa, ci vuole. O si può tornare con Darwin all’“argomento del progetto” del teologo Paley: se c’è un orologio, c’è un orologiaio. Anche Borges immagina una “storia di alcuni cospiratori i quali decidono che qualcuno non esiste o non è mai esistito”. Oppure che esiste, anche se non è mai esistito.


Si parla troppo non a caso. O è vero o è falso, si dice. E se il falso è vero? Il terzo escluso è solo necessario, non foss’altro perché l’uno o l’altro dei termini del caso spesso è occulto.

È effetto della latitanza culturale, intellettuale? Di due generazioni ormai, disperse tra le chiacchiere social e il consumismo più sciocco, la coda di notte per le scarpe gialle Lidl a due euro, che bastano per una camminata, o per appenderle, i tatuaggi, brutti e sporchi, le barbe. Si è latitanti non senza effetto, lo dice la stessa parola. L’isolamento nutre l’orrore. Lutero lo spiega nel commento alla Bibbia, dove a Dio fa creare la donna perché non è bene che l’uomo stia solo: “Un uomo solo deduce una cosa dall’altra, e pensa tutto per il peggio”. Il complotto è esercizio logico prima che paranoico, e unisce tutti, quelli che convergono dall’isolamento. Tutto vi è ineluttabile, una volta recisi i ponti: come la gelosia, l’orrore si nutre di sé. Altra cosa dalla solitudine, il dialogo con se stessi che prepara all’incontro con gli altri e la vita. Chi sopporta sé stesso accetta gli altri: nella solitudine, spiega Arendt, “siamo sempre due-in-uno”, rieccolo. Nietzsche si fa in due a Sils-Maria uscendo dall’isolamento, la malattia professionale dei filosofi. Bertram de Born, l’originale di Dante, è quello che si porta la testa in mano, decapitato per aver diffuso l’odio nella famiglia del re d’Inghilterra, di cui era consigliere.


Il vizio del complotto è come la superstizione, pronuba la paura: si temono mali ignoti, e se mancano motivi certi di paura s’inventano.


Dolorismo – L’ipocondria, lo spleen di tanta prosa dolorante, e poesia, è causa, prima che segno o effetto, della civiltà della crisi. Il dolorismo si osserva come malessere ricorrente (tipico?) di chi ha la pancia piena, Europa (Scandinavia)-Usa, che spiega all’indigente (Asia, Africa, America Latina) quanto è duro abboffarsi, e ne pretende gratis la compassione – usava dirla solidarietà, ora empatia.
 
FedeÈ l’altro estremo del filo (ragionamento) che porta al suicidio. Meno tragico, anzi consolatorio. Ma non meno dialettico, critico: la fede, come il suicidio, libera dal seno tragico dell’esistenza.
Si faccia l’ipotesi che l’uomo conosca l’ora della morte. L’uomo di fede si consola con l’anima immortale, lo scettico con l’inevitabile – anche, se del caso (stanchezza, sofferenza, rivalsa), con la rinuncia a vivere. È il solo quadro in cui il Camus celebrato – “C’è soltanto un problema filosofico davvero serio: il suicidio” – prende senso.
L’immortalità è una condanna, un cappio, per il senza fede: una trappola logica. La fede, che in teoria vi si basa e vi fa affidamento, ne prescinde. Si basta: è fonte di energia e arma per superare l’incertezza – o la atonia, la cialtronaggine. Per quanto vaga, “infondata”, essa possa riuscire a esame critico. Una droga, una simpamina. Lascia liberi di accettare la vita vissuta, anche anonima e perfino sordida, senza perdersi – senza cadere nella passività.
 
Self-deception – “Non la giusta percezione di sé, è alimentare dentro di noi un inganno, assegnarci la parvenza di una bella figura, cercando di dimenticare quel che di negativo, di vergognoso, c’è in noi” – Edgar Morin. È il rimosso, il procedimento di rimozione, con un che di voluto, programmato.
 
Stupidità – Jean Paul, che ne fece l’elogio, la vuole indefinibile, legata alle sue proprie manifestazioni, e una sorta di specchio: “Ognuno apprezza la stupidità che più somiglia alla sua”.
O un metro universale: la stupidità di Jean Paul si elogia da sola, scendendo cioè dove più basso non si può, ma se alza il capo e guarda in alto non trova che stupidità.
Quella biblica, dell’“Ecclesiaste”, è cosmica, di pessimismo radicale: “Infinito è il numero degli stolti”. Se non che, come pare, questo è un senso ciceroniano, che il traduttore san Gerolamo avrebbe soprammesso, ma estraneo all’originale ebraico e alla versione dei Settanta, che invece recita tutt’altro: “Ciò che manca non si può contare”. È di Cicerone la moralità “stultorum plena sunt omnia” – ripresa da sant’Agostino (“Contra Academicos”): “Immensa è la folla degli imbecilli”.
 
Fra i tanti che ne hanno trattato, i più la legano alla risata – come se ridessero solo gli stolti. O alla saggezza, come una forma di furberia. A partire da Cassiodoro: “La stupidità al momento opportuno è la più grande saggezza”. Fino a von Hofmannstahl: “La stupidità più pericolosa è un’acuta intelligenza”. Un’ambivalenza che ha inquietato soprattutto i letterati – Flaubert fra i tanti, Baudelaire giovane, Musil, U. Eco, Gadda, Fruttero e Lucentini. E un paio di storici, tra essi lo storico dell’economia Carlo Maria Cipolla. 
In una forma lievemente diversa Pascal ne fa carico a Montaigne, perché si crede pieno di saggezza – l’intelligenza non si vuole apodittica, specie in materia morale, controvertibile.
 
Deleuze osserverà che la bête, bestia in francese, non è soggetta alla bêtise, la stupidità.
 
L’intelligenza artificiale la metterà fuori corso? Saremo tutti se non sapienti, nella condizione di sapere, senza ostacoli all’ingresso.
Ma è la stupidità l’opposto dell’intelligenza? O: quanto è intelligente l’intelligenza artificiale?


zeulig@antiit.eu

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