Giuseppe Leuzzi
Savinio è stato apprezzato e
rilanciato curiosamente da letterati meridionali, Borgese, Sciascia, Pedullà. È
anche musicista di valore, se John Cage lo apprezzava, come il musicologo
Michele Porzio attesta, ma per questo non ha trovato mallevadore – non ci sono
musicisti al Sud?
È inteso scrittore della leggerezza.
Dunque, a suo modo, del Sud - era pur greco di nascita.
Whoopi Goldberg ha involontariamente sollevato
il problema della razza, volendo negarla (oppure distingue solo tra “razza
bianca” e “razza nera”?) – lei che ha preso come nome d’arte un patronimico usualmente
ebraico. Ma com’è possibile mettere assieme un portegno e un sanpaulinho -
anche se sono nipoti, o figli, di italiani? E un padano con un terrone? La
storia – oggi si direbbe la cultura – fa pure un imprinting.
Checco
Zalone, filologo calabrese
Lo
sketch lgbtqia calabrese di Checco Zalone a Sanremo, del Cenerentolo brasileiro
per il quale al ballo del re del piede d’Italia non si trova la scarpa n. 48,
salace, è recepito dai social e dai critici sanremesi come irrispettoso e anzi
ingiurioso. Facendo perno sull’ironia feroce del comico.
Checco
Zalone in effetti chiude la presentazione, della favola trasposta finalmente al
Sud invece che al Nord, con uno sberleffo: “Una fiaba narrata in Calabria,
piena di luoghi bellissimi e di bella gente, così anche al Sud sono contenti e
non si possono offendere… sti terroni”. Che è invece, involontario?, un effetto
da humour locale, lo spirito dissacrante, detto “zannella”.
Irrinunciabile in ogni conversazione. E anche in letteratura: Répaci, Zappone,
Totò Delfino, Walter Pedullà nel Novecento, Vincenzo Ammirà nell’Ottocento, e
altri più recenti - la performer più
seguita localmente, Marianna Monterosso, cantante lirica, maestro del coro
delle voci bianche al Politeama di Catanzaro, anima un podcast irriverente,
TFM, The Formazione Meridionale.
La
mafia della borghesia
Raccontando
le sue eroicomiche avventure di partigiano nella guerra civile 1943-1945 (“I
piccoli maestri”), lo scrittore Luigi Meneghello, già laureato e allievo
ufficiale di complemento degli Alpini allo sciogliete le righe dell’8
settembre, riflette a un certo punto che il solo suo Veneto, “anche lasciando
stare l’Italia, contiene enormi riserve di energia non catalogate nei libri”:
“Le strutture della nostra società sono borghesi, i popolani non saranno
letteralmente esclusi con la forza, però ne restano fuori”. Ammessi ai servizi,
“la servitù domestica, il bordello, la caserma, il seminario” e, inevitabilmente,
destinati al carcere, di dietro e di fuori le sbarre, ma “una comune cultura
non c’è”. Riferendosi al 1944 conclude: “Gli ultimi ventì’anni in Italia sono
un caso di errore per feroce difetto, opera sostanzialmente di noi borghesi, e
forse senza rimedio”. Dopo avere constatato in montagna, nelle bande
partigiane: “Cosa valgano questi qui si vede ora che si organizzano da soli” – “questi
qui” sono i “popolani”.
Le
mafie sono così, una cosa borghese. Le vestiamo di paludamenti e ragionamenti,
di disegni e progetti, e poteri oscuri. In Calabria gli hanno regalato la Madonna
della Montagna, uno scrigno di pietà popolare, con tutte le altre Madonne, i
santi, la famiglia, e la tarantella. La mafia è il Behemot di Hobbes, e insomma
il potere assoluto, altra invenzione borghese.
Di
per sé la cosa è semplice: il mafioso è uno che sa sparare. Ha “la mira”,
direbbe lo stesso Meneghello. A occhi chiusi, diremmo noi. Prende un barattolo, lo butta per aria, anzi
voi lo buttate per aria, e lui alza la pistola e lo colpisce, infallibilmente.
Quando spara col mitra fa macelli, le stragi, ma questo dipende dall’arma, a
colpo singolo è un boia perfetto. Ha la mano nodosa. Ossuta quanto la vostra,
non più dura né più grande, lui ha la “mira infusa” come dice Meneghello, come
la grazia divina. Per il resto, anche noi abbiamo vari gradi, al lavoro e
fuori, e in vario modo obbediamo, lui è un sicario di professione. Per conto di
chi ha sparato prima di lui, e ammazzando ha fatto i soldi. Per poi,
inevitabilmente, passare la mano a uno più svelto. La mafia è questione di mira
– sarà per questo che la borghesia se ne esalta.
La
donna del Sud rigenera il Nord
Nel
film Rai in tre serate “La sposa”, Giacomo Campiotti ha fatto tesoro del miglior
cinema padano, Avati e Olmi. Intervallato da brevi inserti in esterni
“calabresi”, non cupi, non isolati. Alleggerito da un pizzico di brio e molta
determinazione, femminile, meridionale, anzi di “testardaggine”, viene detto,
calabrese, con cui una strepitosa Serena Rossi lega le sei ore della serie. Con
uno sguardo ingenuo e insieme incrollabile, un corpo minuto ma roccioso, calata
nel personaggio fin nella “calata” propriamente detta in Calabria, nella
parlata, il ton tedesco, aprendo le vocali chiuse, chiudendo le vocali
aperte, con le interrogative negative per affermare, e il suono a scendere. Che
dà letteralmente corpo al personaggio: la donna indifesa, anche umiliata, che
non indietreggia di fronte a nessun sbarramento. Una donna meridionale sbalzata
dagli affetti protettivi della famiglia in un Veneto sprezzante e brutale.
La storia è di una ragazza calabrese che si ritrova per avversità fortuite
sposa per procura, comprata, in qualità di “fattrice”, per un contadino-agricoltore
veneto che non conosce. Di cui finirà per salvare la famiglia e il destino,
oltre che la sua dignità e felicità, e quella dei suoi congiunti. Tra un Sud
lindo e ridente e un Veneto buio – “selvatico” lo dice il prete.
Una fantasia,
un’utopia, uno scherzo, antileghista? Il dato è documentato nelle interviste di
Nuto Revelli, “L’anello forte - La donna: storie di vita contadina”,
un’indagine sul campo, un caposaldo della sociologia orale, e delle mutazioni
migratorie. Nelle 260 testimonianze femminili da lui raccolte nell’agro
di Alba in Piemonte negli anni 1970. Di donne trapiantate attorno al 1950. Tra
esse sessanta meridionali (trentacinque dalla Calabria): spose procurate al Sud
da mezzani per contadini-agricoltori che nessuna in Piemonte voleva più sposare
– il boom incipiente significava urbanizzazione, dei ragazzi e delle
ragazze. Donne che anche nelle interviste di Revelli sono le meno dimesse o
indifese, essendo al contrario pugnaci, e intelligenti.
Di più c’è una sceneggiatura semplice e possente. Di Valia Santella principalmente, cui si deve anche il soggetto. Che meglio non saprebbe delineare una “donna del Sud” dal vero, fuori dallo stereotipo. Di più, specificamente: meglio non saprebbe far parlare e agire una “ragazza calabrese”, con più acume psicologico e di linguaggio. E qui la meraviglia raddoppia, Santella essendo come Serena Rossi di Napoli, non il posto migliore per sapere della Calabria. Ma, certo, un posto colto e già nobile, oltre che lazzarone.
L’identificazione dell’attrice col personaggio completa, somma finezza, lo sguardo sempre retroflesso, di chi si guarda, si controlla, mentre dice e fa, anche nelle collere e i gesti improvvisi.
La pluridiscorsività di Bachtin applicata alla lingua piuttosto che alla società. La società è qui piatta, come poteva essere in tre quarti d’Italia negli anni 1950. Paese agricolo, contadino - radicato, abitudinario. Minime le contrastanti innovazioni che la storia registra: l’industrialismo del sindacalista, cieco anche di fronte ai veleni alla morte, e come grande innovazione, rivoluzionaria perfino, la cooperativa. E questo, senza volerlo, rimanda alla Calabria di oggi, settant’anni dopo.
Sicilia
A una lettrice di “Repubblica” Merlo
spiega: “La letteratura siciliana, mi creda - «gira, furria (firria? n.d.r.) e
vota» direbbe Fiorello - va sempre a finire in Pirandello”. Nel Novecento non
si direbbe, cioè dopo Pirandello: Tomasi di Lampedusa, che non è autore di un
solo libro, Consolo, Bufalino, lo stesso Sciascia, né si può escludere Camilleri,
che non è solo un bestsellerista. E naturalmente i catanesi, di dopo e prima di
Pirandello: Brancati, Capuana, De Roberto, con i catanesi di Mineo Verga e
Bonaviri. Il buffo è che anche Pirandello è poco “pirandelliano”, nei racconti
e le commedie in dialetto, quando fa il siciliano.
Era terra di aquiloni, prima di Kabul. Ne
parla Brydone, viaggiatore anglo-scozzese. Lo conferma Sciascia, “Fuoco all’anima”:
“Sì, c’era questo gioco, che rimase di moda fino alla mia infanzia”, quindi agli
anni 1920, un secolo fa: “Tutti fabbricavano aquiloni ma non si chiamavano
aquiloni, si chiamavano comete”. Poi le stelle si sono fermate: è sopravvenuta
la bonaccia come alle Antille?
Il pino di plastica al posto del pino vero
di Pirandello è l’ultima battuta e l’ultima amarezza di Sciascia , il 5
ottobre 1989, nel libro-intervista con Domenico Porzio, “Fuoco all’anima” - morirà
il 20 novembre - di uno scrittore che le aveva provate tutte, Roma, Milano, Parigi,
ma sempre era tornato in Sicilia, a Palermo d’inverno, a Racalmuto d’estate.
Straniero in patria. A quanti la Sicilia di plastica sarà stata straniera in patria?
Aveva tradizioni ottime, anzi superlative.
Pur abitando a Palermo per oltre venti anni,
Sciascia non è mai entrato nell’Orto botanico. Che pure è molto curato e famoso
– il botanico giallista Santo Piazzese lo ha celebrato, in qualche libro che,
dopo Sciascia, Sellerio ha pubblicato.
Dell’Orto Botanico interessa a Sciascia
che “lo ha progettato un architetto francese”, su iniziativa di un “principe della
Cattolica”: “Questo architetto ha scritto delle memorie che sto facendo
tradurre adesso”, si limita a spiegare a
Porzio, che dell’Orto Botanico gli celebra le meraviglie.
A Porzio che gli chiede “quali sono gli
aspetti positivi del vivere qui”, a Racalmuto, in Sicilia, Sciascia risponde.
“Non lo so. Io ormai non ne trovo”. Dei familiari, le figlie, i generi che ci stanno
volentieri, non trova le ragioni: “Il paesaggio, il clima, gli amici, la casa
sistemata. Saranno tutte queste cose assieme”.
“Gli americani arrivarono con l’elenco
dei mafiosi in tasca. I sindaci di quasi
tutti i paesi furono scelti tra i mafiosi”, Sciascia, “Fuoco
all’anima”, 43. Senza che ne se ne sia avuta traccia nei documenti americani,
che pure sono pubblici?
Gli americani – sempre Sciascia – “avevano
creato una divisione, chiamata Texas, composta interamente da figli di siciliani”.
Sciascia, come poi Camilleri, vede lo sbarco come una storia nera: “Lo sbarco
degli americani è stato una kermesse. Le distruzioni le avevano fatte con l’artiglieria
e i bombardamenti” – l’artiglieria navale evidentemente, prima dello
sbarco. Sempre “gli americani”, senza
gli inglesi, o i franco-africani, che pure si notavano di più.
“Gli unici italiani nazionalisti (non in
quanto italiani, ma in quanto siciliani), sono i siciliani; i toscani sono
campanilisti, e tutti gli altri pensano solo ai soldi” – Sebastiano Vassalli,
“Ammiro Umberto Bossi, un Davide padano” - “Corriere della sera” 13 agosto
1996.
Candidato alle prime elezioni, nel 1861,
Francesco Crispi fu sconfitto a Palermo da un moderato, il marchese di
Torrenova. Lo stesso marchese che nel maggio 1849 presiedeva la Camera siciliana,
quando i deputati finirono per approvare l’armistizio con i Borboni. Il vento
gira in fretta nell’isola.
Nella stessa elezione Crispi fu invece
eletto, lui capo della Sinistra, nel collegio di Castelvetrano, dagli ex
sudditi del barone Favara, suo amico personale, che non solo lo fece eleggere, ma
gli pagò anche le spese di viaggio per Torino – dove Crispi naturalmente
sedette sui banchi dell’Estrema Sinistra.
leuzzi@antiit.eu
1 commento:
Letture appaganti. Sotto certi aspetti mi ricordano le Note Azzurre di Dossi.
Amo Savinio, moltissimo, ma come narratore del sud vorrei citare il poco noto Atanasio Mozzillo.
https://www.lacittadisalerno.it/cultura-e-spettacoli/i-viaggi-dei-borghesi-europei-nel-salernitano-1.2502748
La giornata della memoria direi che ha fatto il suo tempo. Più che persistere nel ricordo, se la civiltà occidentale volesse davvero imparare da quello che è successo, dovrebbe imparare a dimenticare chiedendosi perché sia successo insistendo in forme diverse del ricordo. "Ciò che il perduto esige, non è di essere ricordato e commemorato, ma di restare in noi e con noi in quanto dimenticato, in quanto perduto – e unicamente per questo, indimenticabile".
E questo deve valere per tutti coloro che hanno subito ingiustizie.
C'è una citazione particolare:
«È questo il legame che unisce vicende così eterogenee come il massacro di Verdun, la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, le camere a gas di Auschwitz, il gulag siberiano, le risaie cambogiane e le epurazioni etniche compiute in Bosnia o nel Kossovo. Studiare queste violenze significa inevitabilmente prendere in esame le aporie di un processo di civilizzazione che le scienze sociali, da Weber a Elias, hanno sempre identificato con la costruzione del monopolio statale dei mezzi di coercizione. In tempi normali, questo monopolio libera la società dalla violenza, ma in tempo di crisi crea le premesse dell’eruzione di una violenza di stato ben più mortifera dei conflitti delle società arcaiche. Le macchine statali che permettono il buon funzionamento delle società fondate sulla regolazione razionale e legale dei conflitti si rivelano spesso perfettamente compatibili con la violenza estrema che cancella le conquiste del processo di civilizzazione.» (Enzo Traverso, «Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento», Feltrinelli, 2012, pag. 140).
Un saluto
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