Il genio ironico dell'impolitico Th. Mann
Un saggio
che il settimanale presenta nell’indice come “The Ironic Genius of Thomas Mann”.
Con riferimento a un’opera del 1958, riedita nel 1981, di Erich Heller, “Th.
Mann, the Ironic German”, su cui anche Alex Ross infine concorda. Poi pubblicato a stampa col titolo “Behind the
Mask”, dietro la maschera.
Il saggio è la recensione della biografia
scritta da Colm Tóibin, “The Magician”, e della riedizione delle
“Considerazioni di un impolitico”. Di Tóibin assume poco, delle
“Considerazioni”, invece, molto. Dichiaratamente, già nel sommario: “Come il
tormentato manifesto conservatore del romanziere tedesco porta ai suoi più
tardi capolavori modernisti”. A partire dalla “Montagna magica”, o incantata. Che Ross a ragione dice un dialogo tra i due fratelli Mann, Heinrich e Thomas,
infine riconciliati seppure a distanza - stando a quanto lo stesso Thomas
scrisse nel 1944, per giustificare le “Considerazioni di un impolitico”. Il
“manifesto conservatore” è le “Considerazioni”.
Alex Ross
è di professione musicologo. Ma conoscendo tutto di Th. Mann, fin da ragazzo,
se ne vuole migliore lettore. Acuto sicuramente. Le “Considerazioni” spiega
come il libro più vero (spontaneo, personale) di Thomas Mann. E come il suo
“secondo romanzo”. Dal 1901, col successo immediato dei “Buddenbroook”, fino
al 1924, “La Montagna magica”, Th. Mann annaspa. Passando da “Fiorenza” a
“Altezza reale”, “Federico il Grande” e “altri ponderosi progetti”. O racconti su
temi triviali: di pazienti in una clinica svizzera per tubercolotici, le
confidenze di un simpatico cavaliere d’industria, una vacanza a Venezia. Con le “Considerazioni” si libera. E
soprattutto abbozza temi che poi svilupperà. Nel primo dopoguerra con la “Montagna
magica”. Negli anni cupi di Hitler con “Carlotta a Weimar” e il “Doctor Faustus”
– “il Doctor Faustus rimette in scena la vita di Nietzsche”.
Le
“Considerazioni” sono un po’ i “Quaderni neri” di Thomas Mann. Non esattamente,
nel senso che poi se ne è vergognato, e in qualche modo ha recuperato. Ma sì
perché ne esprimono il suo vero o intimo modo di essere, vedere, giudicare:
diretto e non artefatto, come è dei suoi successivi racconti. “Le «Considerazioni»
sono un assemblaggio straordinariamente contorto di allusioni, imitazioni,
insulti obliqui, citazioni non attribuite, plagi, e autocannibalismo. Nell’importante
volume dell’edizione annotata dell’opera di Mann in corso dall’editore S. Fischer,
lo specialista Hermann Kurzke fornisce quasi ottocento pagine di commenti,
dando conto di circa quattromila citazioni”. Molto autoelogiativo: “Mann
immagina che i robusti eroi della Germania traggono alimento dal suo lavoro – «Morte
a Venezia» dice specialmente popolare nelle trincee”.
Così
avverrà nelle narrazioni da ora in poi, tutte autoreferenti. Ma a un Th. Mann attaccapanni,
non modello, sentimentale o romantico.
Qualche
dubbio doveva averlo già da prima, va aggiunto, se “Tonio Kröger”, l’autoritratto
giovanile, a lungo aveva intitolato “Literatur”. Del modulo espressivo che fa
delineare al narratore in “Morte a Venezia”, 1912, a quella data ancora “magniloquente”,
dieci anni dopo, dopo le “Considerazioni”, farà di sé stesso il “modello”: “Quello
cui ambiva, tuttavia, era di lavorare alla presenza di Tadzio, di prendere il
fisico del ragazzo come il modello per la sua scrittura, di lasciare il suo stile
seguire i contorni di quel corpo che gli sembrava divino, di trasportare la bellezza
nel regno dell’intelletto, come l’aquila un tempo trasportò il pastore troiano
nell’etere”, Ganimede. Una “Morte” in effetti parecchio artefatta, va detto, più che
dannunziana. Con le “Considerazioni” il passo è diversissimo – Th. Mann allo
specchio non poteva vedersi Ganimede… E con la scoperta l’ironia si sostituisce
alla magniloquenza: le narrazioni saranno filtrate dalla ironia. Le architetture ora così
spesso sapienti, in risposta al committente-lettore, anche sui temi pruriginosi
(l’incesto, fraterno, oltre all’omossessualità, e la masturbazione) sono
organizzate, a ben leggere, su un taglio semiserio.
Ross non
è solo in questa valutazione. Molta critica riporta Th. Mann a Nietzsche - se
non altro per ragioni anagrafiche, la sua età di formazione coincidendo con la
prima notorietà di Nietzsche, il piccolo succès de scandale della
follia. A partire dal vecchio libro di Heller: al Nietzsche che considera il
temperamento ironico come l’essenza vitale che unifica e impone gli elementi contraddittori
del genio. Ross ci aggiunge “Carlotta a Weimar”, in cui il vecchio Goethe
indulge all’onanismo – un Goethe in età che è tutto Th.Mann: quello che si
nutre delle vite degli altri, il genio cannibale, parassitario. E soprattutto
fa un’analisi puntigliosa di “Morte a Venezia”, da cui emerge quanto il
racconto è ancora costruito e non una foia personale.
Un capitolo
a parte del saggio, leggendo Tóibin, prende la pretesa omosessualità. “Pochi scrittori di
romanzi hanno con tanta costanza”, come Mann, “incorporato le loro proprie
esperienze nel loro lavoro”, premette il recensore giunti a questo punto. Ma
“la sua sessualità è un enigma esibizionistico”, conclude. Su questo tema facendo riferimento alla narrazione di Tóibin. Nei diari Th. Mann è
dettagliato, e annota anche erezioni, masturbazioni, polluzioni notturne, ma
nei racconti è in difficoltà a parlare di rapporti omoerotici, e nel 1950, dopo
la lettura di Gore Vidal, “La città perversa” (“The City and the Pillar”), si
chiede: “Come si può andare a letto con uomini?”
Ma a
questo proposito una pista andrebbe seguita, che Th. Mann stesso più di altre delinea.
Dell’omofilia come uno dei tanti profili pruriginosi che lo scrittore ama
presentare di sé, come è di tutta la narrativa “di Weimar” o austrotedesca del
primo Novecento, fino a Hitler abbondante, tra l’incesto e l’onanismo. E non
escluso l’antisemitismo, di “Altezza reale”, “Sangue velsungo” e altre narrazioni – che in
Th. Mann fa specialmente senso, uno che si vuole maiuscolo anche da biblista, sposo
di una donna ebrea cui felicemente fece sei figli, anche se non se ne occupò (Katia
Pringsheim, di cui si evita di fare la biografia, che era bella, ricca di
famiglia, più dei Mann, e di parentele artistiche più che commerciali,
intelligente, studentessa di matematica, e spiritosa).
Un
tassello per un quadro che pure è già chiaro. Th. Mann, autore coscienzioso,
corteggia l’aria dell’epoca. Nel primissimo Novecento il romanzo borghese, di
derivazione anglo-parigina, e in area germanica l’omofilia, l’incesto,
l’antisemitismo. E il nazionalismo naturalmente, quando il mondo teutonico
nobile era nazionalista, prima del plebeo Hitler. Da ultimo, per Th. Mann, la
“Svizzera”, domiciliazione non poi bizzarra nell’ottica thomasmanniana del mainstream:
per non dispiacere a Mosca stabilendosi, come pure era ovvio, nella Repubblica
Federale – nel 1955 un Lukács
ancora “sovietico” in linguaggio paleostalinista può annettere il Thomas Mann del
“Doktor Faustus” al “sole dell’avvenire”: “Thomas Mann, il poeta, sempre più
apertamente, sempre più decisamene, si batte per la vita, per la salute, per la
pace e per il socialismo – contro la
morte, la malattia e l’estinzione, contro l’imperialismo reazionario, contro il
fascismo” (prefazione a un’edizione ungherese dei racconti giovanili di Th.
Mann, datata 15 aprile 1955, di cui ha dato conto Giorgio Pressburger sul “Corriere
della sera” il 5 settembre 1996, “Thomas Mann? Marcia con Stalin insieme a noi”).
Alex
Ross, Thomas Mann’s Brush with Darkness, “The New Yorker”, free online
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