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Il romanzo della Resistenza e dell’ebraismo – le "colpe" di Primo Levi
“Il” romanzo di Primo Levi, narratore di
suo breve, di cose vissute e viste: romanzo d’invenzione. Su una “banda” di ebrei
che tra Ucraina, Polonia, Bielorussia si battono, da luglio 1943 a
luglio-agosto 1945, contro l’occupazione nazista, e da ultimo si dirigono verso
l’Italia, in cerca di un imbarco verso la Palestina. Sempre isolati dagli altri
gruppi partigiani, polacchi o russi. Il romanzo di un gruppo di proscritti, di
fatto, tra sporadiche azioni di guerriglia, e amori tristi.
Il romanzo, anche, in sottotono, della crisi
di identità. Primo Levi si voleva per tre quarti italiano e per un quarto
ebreo. Anzi, per quattro quinti piemontese. Qui monta una storia di “irregolari”
che finiranno sionisti, per esaurimento – per non sapere più chi sono. Ma lui
stesso comincia a porsi la questione. Tanto più in quanto l’identità si configura
ancora nazionale, di anagrafe, lingua, e anche tradizione – il primo protagonista
si vuole “un russo ebreo e non un ebreo russo”, e così, verso la fine, una
leggiadra combattente parigina scampata al lager che non sapeva di essere
ebrea, e non sa ancora che cosa sia.
Il titolo è l’ultimo verso di una canzone sionista,
composta da un ebreo prigioniero dei tedeschi come ultimo desiderio prima dell’esecuzione.
Levi l’ha composta, spiega in nota, da sue letture recenti di ebraismo dotto: “Da
alcune parole che ho trovate nei ‘Pirké Avoth’ (“Le massime dei Padri”), una raccolta
di detti di rabbini famosi che fu redatta nel II secolo dopo Cristo e che fa
parte del ‘Talmud’”, attribuite al rabbino Hillel. Alla nota aggiungendo la
chiosa: “Naturalmente, l’interpretazione che di questo testo io attribuisco ai personaggi
non è quella ortodossa”. Con ironica allusione alle difficoltà dell’ortodossia,
che ha già fatto rappresentare a un paio di personaggi, per quanto sionisti. E
cioè di dirsi o essere buoni ebrei.
Una narrazione della Resistenza curiosamente
dal vivo. Curiosamente perché Levi ne ebbe sempre il complesso. Emerge costante
dalle interviste e dalle conferenze - lo storico Sergio Luzzatto l’ha ben evidenziata
in “Partigia” e in “Ritorno su Partigia” – la colpa di non avere fatto la scelta
della Resistenza con acume e serietà, ma da giovanotto superficiale, in modi dilettanteschi
(fu arrestato in quanto partigiano, di una banda autocostituita con due o tre
amici, e sarà lui stesso a denunciarsi ebreo, pensando così di riacquistare la libertà….).
Un romanzo di avventure. Con la piccola
banda ebraica è tutto un mondo che viene narrato, della Resistenza. Umida, o
sudata, affamata e affannata più che ingorda, incerta più che decisa – la Guerra
partigiana dipende dalla radio, dai “lanci” notturni. Con la fame, il sesso
triste, i pidocchi. Una narrazione che, a bocce ferme, ha tutta l’aria di
essere vera, più delle tante della Resistenza made in Italy, anche di scrittori
illustri, Fenoglio, Meneghello, Bocca, Calvino. Calcolatrice più che avventurosa.
Un esercizio in sopravvivenza.
Una “testimonianza” romanzesca, cioè inventata,
ma scritta come una storia: precisa, conseguente, verosimile. Non molto amata,
rispetto al Levi dei racconti di prigionia e della natura, ma persuasiva, ancora
dopo quarant’anni, e più ricca, sempre leggibile. Soprattutto convincente.
Per la prima volta Levi si prende l’autorevolezza
dell’autore. Sa per esempio far parlare
la Resistenza che si rimprovera di non avere fatto. “So che cosa è la guerra partigiana”,
fa dire a un capobanda - naturalmente un russo: “So che a un partigiano può
capitare di avere fatto, visto o detto cose che non deve raccontare”. L’invenzione
dei luoghi, le ore, le situazioni, la folla di personaggi minori e minimi è sempre
perspicua: in tono, espressiva, misurata il giusto.
Un romanzo per tracce evidenti molto alla “Educazione
europea”, l’altra narrazione “da lontano”, la prima, della Resistenza in Polonia,
con cui Romain Gary debuttò nel 1945. Con la differenza che Gary, nato a
Vilnius, città polacca prima che lituana, aveva vissuto in Polonia, parlava il
polacco, ma ha poca Polonia in “Educazione europea”. Levi invece sa raccontare
un mondo a lui estraneo con più dettaglio. E con più verosimiglianza: anche per
esperienza, si può confermare che è come se Levi avesse fatto una ricognizione
minuta dei luoghi, nelle varie stagioni. “Educazione europea” Sartre giudicò, scrive wikipedia, “il miglior romanzo mai scritto sulla Resistenza”. Si sarebbe ricreduto se avesse potuto leggere questo Primo Levi (Fenoglio e Meneghello scrivono di altro, di avventure di gioventù, nella Resistenza).
Gli echi sono molti, il racconto è anche di molte letture. Curioso quello degli “uomini della foresta”
di Jünger. Dei “Waldgänger” (titolo italiano “Trattato del ribelle”), la celebrazione
postbellica dei liberi proscritti - da poco riedita in tedesco, nel 1980, e in francese,
nel 1981, con un certo clamore. Gedali, uno dei tanti protagonisti, il romanzo è corale, è
nome e personaggio di Babel’, “L’Armata a cavallo” –
è un negoziante, ma ha la celebre frase, che è la filosofia del personaggio di Levi: “Qual è la Rivoluzione e quale la controrivoluzione?”
Il romanzo si snoda da un inverno, quello
del 1943-44, con le notizie del cedimento dell’Italia e delle prime ritirate
tedesche dalla Russia, a mano a mano che le città tornano sotto l’Armata Rossa,
alla primavera e all’estate del 1944, e a un altro inverno, quello decisivo
1944-45, della liberazione. Minuzioso, preciso e non magniloquente, qui come
nei racconti e nelle testimonianze della prigionia che fanno Primo Levi. Storie
di minuti personaggi e minime avventure. Dentro una cornice mostruosa: il
paesaggio, difficile e inospitale, e il nemico, avvertito, organizzato, cattivo.
I russi s’incontrano
affabili, nella loro lingua inafferrabile, e affidabili – i russi salvarono per
miracolo, letteralmente, i morti viventi residuati nel lazzeretto di Auschwitz,
tra essi Levi. Si occupano dei russi della “banda”, non importa se ebrei. Vincono,
ma fattuali, e con economia minima - come quella dello scrittore, di Primo Levi:
una squadriglia di “avvisatori”, piccoli aerei leggeri, di legno,
pilotati da ragazze, che atterrano a partono in piccoli spazi, fa in poche
righe un film, I polacchi, il narratore li ammira e ne diffida: coraggiosi anche
se sfortunati ma inaffidabili - altrove, in un’intervista, ha detto che “avevano
un terrore folle dei tedeschi”, e quindi potevano denunciare, denunciavano.
Un romanzo anche in cui Primo Levi riflette
sulla condizione di ebreo. Sul modo di essere e di pensare. Con garbo, più
spesso attraverso storielle lievi, ma con laico disagio. Lo spiega in particolare
a metà narrazione, facendo rappresentare a qualcuno il “Talmud”, la sua “logica
contorta”: “Volevo solo farvi provare”, fa dire a una ragazza che ha
partecipato alla piccola rappresentazione a beneficio di un partigiano della banda
non ebreo, “che effetto fa essere ebreo…., che effetto fa avere la testa fatta
in un certo modo”. Dopo aver fatto rappresentare agli stessi partigiani ebrei alcune
delle dicerie sugli ebrei – l’amore libero, la sovversione, l’avidità.
Primo Levi, Se non ora, quando?,
Einaudi, pp. 275 € 14
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