giovedì 3 febbraio 2022

Il romanzo della Resistenza e dell’ebraismo – le "colpe" di Primo Levi

“Il” romanzo di Primo Levi, narratore di suo breve, di cose vissute e viste: romanzo d’invenzione. Su una “banda” di ebrei che tra Ucraina, Polonia, Bielorussia si battono, da luglio 1943 a luglio-agosto 1945, contro l’occupazione nazista, e da ultimo si dirigono verso l’Italia, in cerca di un imbarco verso la Palestina. Sempre isolati dagli altri gruppi partigiani, polacchi o russi. Il romanzo di un gruppo di proscritti, di fatto, tra sporadiche azioni di guerriglia, e amori tristi.
Il romanzo, anche, in sottotono, della crisi di identità. Primo Levi si voleva per tre quarti italiano e per un quarto ebreo. Anzi, per quattro quinti piemontese. Qui monta una storia di “irregolari” che finiranno sionisti, per esaurimento – per non sapere più chi sono. Ma lui stesso comincia a porsi la questione. Tanto più in quanto l’identità si configura ancora nazionale, di anagrafe, lingua, e anche tradizione – il primo protagonista si vuole “un russo ebreo e non un ebreo russo”, e così, verso la fine, una leggiadra combattente parigina scampata al lager che non sapeva di essere ebrea, e non sa ancora che cosa sia.
Il titolo è l’ultimo verso di una canzone sionista, composta da un ebreo prigioniero dei tedeschi come ultimo desiderio prima dell’esecuzione. Levi l’ha composta, spiega in nota, da sue letture recenti di ebraismo dotto: “Da alcune parole che ho trovate nei ‘Pirké Avoth’ (“Le massime dei Padri”), una raccolta di detti di rabbini famosi che fu redatta nel II secolo dopo Cristo e che fa parte del ‘Talmud’”, attribuite al rabbino Hillel. Alla nota aggiungendo la chiosa: “Naturalmente, l’interpretazione che di questo testo io attribuisco ai personaggi non è quella ortodossa”. Con ironica allusione alle difficoltà dell’ortodossia, che ha già fatto rappresentare a un paio di personaggi, per quanto sionisti. E cioè di dirsi o essere buoni ebrei.   
Una narrazione della Resistenza curiosamente dal vivo. Curiosamente perché Levi ne ebbe sempre il complesso. Emerge costante dalle interviste e dalle conferenze - lo storico Sergio Luzzatto l’ha ben evidenziata in “Partigia” e in “Ritorno su Partigia” – la colpa di non avere fatto la scelta della Resistenza con acume e serietà, ma da giovanotto superficiale, in modi dilettanteschi (fu arrestato in quanto partigiano, di una banda autocostituita con due o tre amici, e sarà lui stesso a denunciarsi ebreo, pensando così di riacquistare la libertà….).
Un romanzo di avventure. Con la piccola banda ebraica è tutto un mondo che viene narrato, della Resistenza. Umida, o sudata, affamata e affannata più che ingorda, incerta più che decisa – la Guerra partigiana dipende dalla radio, dai “lanci” notturni. Con la fame, il sesso triste, i pidocchi. Una narrazione che, a bocce ferme, ha tutta l’aria di essere vera, più delle tante della Resistenza made in Italy, anche di scrittori illustri, Fenoglio, Meneghello, Bocca, Calvino. Calcolatrice più che avventurosa. Un esercizio in sopravvivenza.
Una “testimonianza” romanzesca, cioè inventata, ma scritta come una storia: precisa, conseguente, verosimile. Non molto amata, rispetto al Levi dei racconti di prigionia e della natura, ma persuasiva, ancora dopo quarant’anni, e più ricca, sempre leggibile. Soprattutto convincente.
Per la prima volta Levi si prende l’autorevolezza dell’autore. Sa per esempio far parlare la Resistenza che si rimprovera di non avere fatto. “So che cosa è la guerra partigiana”, fa dire a un capobanda - naturalmente un russo: “So che a un partigiano può capitare di avere fatto, visto o detto cose che non deve raccontare”. L’invenzione dei luoghi, le ore, le situazioni, la folla di personaggi minori e minimi è sempre perspicua: in tono, espressiva, misurata il giusto.   
Un romanzo per tracce evidenti molto alla “Educazione europea”, l’altra narrazione “da lontano”, la prima, della Resistenza in Polonia, con cui Romain Gary debuttò nel 1945. Con la differenza che Gary, nato a Vilnius, città polacca prima che lituana, aveva vissuto in Polonia, parlava il polacco, ma ha poca Polonia in “Educazione europea”. Levi invece sa raccontare un mondo a lui estraneo con più dettaglio. E con più verosimiglianza: anche per esperienza, si può confermare che è come se Levi avesse fatto una ricognizione minuta dei luoghi, nelle varie stagioni. “Educazione europea” Sartre giudicò, scrive wikipedia, “il miglior romanzo mai scritto sulla Resistenza”. Si sarebbe ricreduto se avesse potuto leggere questo Primo Levi (Fenoglio e Meneghello scrivono di altro, di avventure di gioventù, nella Resistenza). 
Gli echi sono molti, il racconto è anche di molte letture. Curioso quello degli “uomini della foresta” di Jünger. Dei “Waldgänger” (titolo italiano “Trattato del ribelle”), la celebrazione postbellica dei liberi proscritti - da poco riedita in tedesco, nel 1980, e in francese, nel 1981, con un certo clamore. Gedali, uno dei tanti protagonisti, il romanzo è corale, è nome e personaggio di Babel’, “L’Armata a cavallo” – è un negoziante, ma ha la celebre frase, che è la filosofia del personaggio di Levi:Qual è la Rivoluzione e quale la controrivoluzione?” 
Il romanzo si snoda da un inverno, quello del 1943-44, con le notizie del cedimento dell’Italia e delle prime ritirate tedesche dalla Russia, a mano a mano che le città tornano sotto l’Armata Rossa, alla primavera e all’estate del 1944, e a un altro inverno, quello decisivo 1944-45, della liberazione. Minuzioso, preciso e non magniloquente, qui come nei racconti e nelle testimonianze della prigionia che fanno Primo Levi. Storie di minuti personaggi e minime avventure. Dentro una cornice mostruosa: il paesaggio, difficile e inospitale, e il nemico, avvertito, organizzato, cattivo.
I russi s’incontrano affabili, nella loro lingua inafferrabile, e affidabili – i russi salvarono per miracolo, letteralmente, i morti viventi residuati nel lazzeretto di Auschwitz, tra essi Levi. Si occupano dei russi della “banda”, non importa se ebrei. Vincono, ma fattuali, e con economia minima - come quella dello scrittore, di Primo  Levi:  una squadriglia di “avvisatori”, piccoli aerei leggeri, di legno, pilotati da ragazze, che atterrano a partono in piccoli spazi, fa in poche righe un film, I polacchi, il narratore li ammira e ne diffida: coraggiosi anche se sfortunati ma inaffidabili - altrove, in un’intervista, ha detto che “avevano un terrore folle dei tedeschi”, e quindi potevano denunciare, denunciavano.
Un romanzo anche in cui Primo Levi riflette sulla condizione di ebreo. Sul modo di essere e di pensare. Con garbo, più spesso attraverso storielle lievi, ma con laico disagio. Lo spiega in particolare a metà narrazione, facendo rappresentare a qualcuno il “Talmud”, la sua “logica contorta”: “Volevo solo farvi provare”, fa dire a una ragazza che ha partecipato alla piccola rappresentazione a beneficio di un partigiano della banda non ebreo, “che effetto fa essere ebreo…., che effetto fa avere la testa fatta in un certo modo”. Dopo aver fatto rappresentare agli stessi partigiani ebrei alcune delle dicerie sugli ebrei – l’amore libero, la sovversione, l’avidità.
Primo Levi, Se non ora, quando?, Einaudi,  pp. 275 € 14
 

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