Malinconia del sapiente
Una cornucopia di versi e prose
liriche che Borges pubblicò per la sua compagna di vita da ultimo, Maria Kodama.
“Il più intimo”, lo dice nel “Prologo”, dei suoi libri. Quasi una confessione,
o un autoritratto, di sé stesso a futura memoria – la “notte” essendo la cecità
incombente, come la dice lui stesso, ma anche un presentimento di morte, benché
Borges abbia poi vissuto un’altra decina d’anni, spesso in viaggio, laureato e
premiato, e pubblicato altri tre o quattro libri. Sempre gnomico, anche nella
dedica, di “cose disparate, che sono forse, come presentiva Spinoza, mere
figurazioni e facce di un’unica cosa infinita”.
Un libro d’amore malinconico. Vanitas
vanitatum è il basso continuo. Su un fondo di eremitaggio. Non
misantropico, la socievolezza è parte del carattere preponderante, l’amicizia,
il quartiere (Palermo), la città (Buenos Aires), la famiglia (gli avi sempre
importanti, di padre e di madre), la Francia, che gli ha appreso l’esametro. Ma
distaccato: per “L’innamorato” del componimento omonimo non c’è arte e non c’è
storia, veramente, “farò finta che queste cose esistano”. E non c’è altro, “fingerò
che altri esistano. È menzogna”. Per proporsi fedele d’amore. Ma a chi, a che?
Il poeta è, come l’incolpevole G.A. Bürger a Gottinga nel Settecento, di “sapienza
tanto inutile\ quanto lo sono i corollari di Spinoza\ o le magie della paura”,
Una despedida, un addio.
Precoce, in forma di libro d’amore, ma pieno di malinconia, di quello che fu e
non è, e di quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Dei ricordi, di ciò
che fu, o avrebbe potuto essere – “a volte la memoria mi spaventa”, si dice con
sant’Agostino. Ma per questo il libro più personale, meno elusivo, di Borges.
“L’amore che non abbiamo condiviso” e “Il figliolo che non ho avuto” sono tra i
rimpianti delle “cose che avrebbero potuto essere e non sono state”.
Un repertorio dei temi sempre cari.
Borges rivede, riracconta, tutti i suoi topoi: la tigre, il leone, la
Francia, l’Islanda, i vichinghi, l’amico morto, qui Manuel Peyrou, “prigioniero
di una casa\ piena di libri senza più le lettere”, la biblioteca naturalmente,
personaggi e geografie germaniche di sua invenzione, Gunnar Thorgilsson, l’Islanda,
i Vichinghi, che non vollero scoprire un impero, la biblioteca di Alessandria,
Milton, e le “Mille e una notte”, con milonghe, e coltelli. Molte enumerazioni, per la consueta vertigine
della lista, con molti elenchi, di cose, trattazioni, fantasie, monumenti,
storia.
Un epicedio da vivo. In una cornice
di stanchezza. Un riesame come un esame di coscienza. Della vanità, anche, del
sapere. Che è stato la sua gioia: “La biblioteca di mio padre è stata l’evento
capitale della mia vita”, è la penultima riga del libro. L’ultima: “La verità è
che non ne son mai uscito, come Alonso Quijano non uscì mai dalla sua”.
Versi per più aspetti sempre prosastici.
Insonori per lo più, rare le rime. Una poesia anche qui didascalica, raramente
“poetica”, ritmica, suggestiva, espansiva (lirica, elegiaca, idilliaca, epica)
– in questa edizione, con l’originale a fronte, la lettura curiosamente ispira
più nella traduzione, di Francesco Fava. Versi enigmatici e didattici - enigmatici per
essere didattici: la magia di Borges sarà stata quella segreta del maestro di
scuola, sapiente, sorprendente.
Jorge
Luis Borges, Storia della notte, Adelphi, pp.126 €12
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