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Razza e cultura
Nella piccola tempesta
sollevata da Whoopi Goldberg sullo sterminio degli ebrei, se considerarlo un
crimine razziale oppure un crimine dettato dalla ferocia, si sono udite, fra
tante condanne, anche voci ebraiche che dicono l’ebraismo non un fatto razziale
ma religioso.
Curiosamente, la distinzione
dell’attrice afroamericana era il sentimento di Primo Levi. Quello che attrae,
anche, tuttora della sua narrazione della Shoah. Bene lo spiega lo storico Sergio Luzzatto, dopo avere documentato l’esperienza
partigiana dello scrittore nel volume “Partigia”, nel pamphlet “Ritorno
su ‘Partigia’”, in cui risponde alla critiche (sulle spie che vendettero la “banda”,
e sull’esecuzione sommaria di due ladruncoli scambiati per spie): “Fra
gli ingredienti della ricetta che rende «Se questo è un uomo» un
libro unico entro il genere della memorialistica sulla Shoah è la rinuncia a
rappresentare la condizione della vittima di Auschwitz come vittima semita
piuttosto che come vittima umana. È l’invito ai lettori perché considerino –
fin dal titolo del libro, e poi nel salmo inaugurale – «se questo è un uomo»
piuttosto che «se questo è un ebreo». D’altronde, il lavoro di editing compiuto
da Levi in fase di stesura, dalla prima versione dattiloscritta a quella
pubblicata nel 1947, era andato precisamente nel senso del levare quanto
definisse in termini ebraici la condizione dell’internato, per definirla in
termini universalistici (salvo far precedere il tutto dai versi ricalcati
sulla Shemà, la preghiera degli ebrei: più che un esergo, un
comandamento)”. Di uscire evidentemente, liberarsi, come dirà in qualche intervista, dalla vergogna di “non essere morto” - dal senso di colpa, per quanto senza colpa, morale o sentimentale, verso i compagni di prigionia morti, politico, per la propria sventatezza, etnico.
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