Thomas Mann a Venezia con D ‘Annunzio
Ma è D’Annunzio! Sugli altari come reliquia
gay, è un racconto estetizzante, tra Wilde e D’Annunzio. Anche molto, cioè
troppo: su un filo marcatamente costruito, esterno, ironico, critico. Per il tratto
celebre, rivelatore dell’intenzione dello scrittore, che non anela a un corpo,
ma a un modello di scrittura: “Quello cui ambiva, tuttavia, era di lavorare alla
presenza di Tadzio, di prendere il fisico del ragazzo come il modello per la
sua scrittura, di lasciare il suo stile seguire i contorni di quel corpo che
gli sembrava divino, di trasportare la bellezza nel regno dell’intelletto, come
l’aquila un tempo trasportò il pastore troiano nell’etere”, Ganimede. Un parodia della
bella scrittura, che altro può essere?
Non una
memoria o una confessione, ma un esercizio come un altro di abilità, di scrittura.
Di un autore che, dopo il successo improvviso all’esordio, con i “Buddenbrook”,
aveva passato una dozzina d’anni d’incertezze e prove fallite. Anni sui quali l’ombra
di D’Annunzio trasvolava pesante. Un racconto a effetto – anche questo di tipo
dannunziano. Se è vero, come Mann pretenderà nelle “Considerazioni di un
impolitico”, che questa “Morte” era il libro più letto nelle trincee. Un
racconto pruriginoso, il primo dei tanti di cui Th. Mann si diletterà, l’incesto,
l’onanismo, l’antisemitismo. Partendo probabilmente dal romanzo di Achille Tazio, “Leucippe e Clitofonte”, che compara, atto per atto, gli amori con le donne con quelli con i ragazzi. Il tutto condendo, come D’Annunzio, e come lui
asceta della penna, di uno spruzzo di personale, per un succès
de scandale
– e a maggior profitto dei futuri biografi.
Ma con un fondo – un retrogusto, una base
psicologica? – da commedia nera. Già il titolo è antifrastico, quasi irridente.
Riallacciandolo alle successive “Considerazioni di un impolitico” si capisce perché.
Dove qua e là corregge letture misconcette del racconto. È letto, e ancora
proposto, in chiave dannunziana, della ricerca di uno stile elevato. Mentre è
una parodia, dell’autore infoiato della bellezza, dello stile elevato o
ricercato. Letto in chiave romantica, adombra un Mann ingenuo, adolescente,
debuttante, timido. Letto in chiave ironica, di un registro nero, si capisce
meglio: Tadzio è la perfezione, inattingibile, se non a prezzo di ulcerarsi in
spasmi inutili. L’ambizione di Aschenbach, “di lavorare alla presenza di Tadzio”,
è sindrome estetica adolescenziale, o allora dannunziana. Ma se senza crederci,
come Th. Mann ci ha abituati a consideralo, un cinico curatore dell’immagine e
del successo, è una parodia, e anzi una satira. Commuove i gay come parte di
una letteratura di genere, ma allora per ridere: Ganimede, l’Olimpo, il divino,
la perfezione, siamo nel regno dell’estetismo più pacchiano.
L’identificazione nell’autore anziano è la
prima spia. Come di Th. Mann che si distanzia, da se stesso, trasponendo i suoi
precedenti tentativi di scrittura dopo i “Buddenbrook”, le trame estetizzanti,
eroiche, fantastiche, in capo a un comodo bersaglio.
Thomas Mann, La
morte a Venezia, Einaudi, pp. 113 € 9,50
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