sabato 19 febbraio 2022

Vita allegra, vista dal basso

Si presenta questa scrittrice di racconti con una fama da “maledetta”. Non per quello che scrive, sempre felice, anche nell’abiezione (l’alcolismo, la malattia, la vecchiaia, la crudeltà), vivace, brillante, perfino euforica, ma per le condizioni di vita. La biografia che si è costruita da ultimo, e che Stephen Emerson e Lydia Davis, che ne hanno ripreso e riproposto i racconti, un po’ dispersi, avallano, per crearle un’aura di vicinanza, di patronaggio. Di cui Lucia non ha bisogno, i suoi racconti si reggono da soli.
Minimal antemarcia, anche forse prima di Bukowsky e contemporanea di Carver - la Berlin Renaissance non dà date, ma si parte dagli anni 1960, ai vent’anni della scrittrice. Tutto in soggettiva, racconti di sé, e di cose viste, vissute, ma con arguzia e leggerezza, con occhio sempre vispo, meno monotono, specie nel leitmotiv dell’America alcolica. Ci sono due Americhe “maledette” nel secondo Novecento: una è della droga, l’altra dell’alcol, sulla traccia di Hemingway (e una terza ora del sesso – abuso, oltraggio, violenza?). Il racconto della crisi di astinenza da alcol, pur brevissimo, è insopportabile come il titolo, “Ingestibile”, né Bukowski né Philip Dick hanno esiti comparabili. 
Non un outsider, Berlin ha pubblicato a partire dai vent’anni sulle migliori riviste, “The Noble Savage” di Saul Bellow, “The Atlantic”, The New Strand”, “New American Writing”. Si appaia dai suoi editori a Cechov, o più recentemente a Carver, Jean Rhys, Alice Munro. Ma è più ai “regionali” americani che si avvicina, anzi alle “regionali” che il genere hanno illustrato, Flannery O’ Connor, Carson McCullers. Regionale, cioè meridionale, si può dire anche Berlin, che soprattutto racconta il Messico, e la Patagonia, e in America il Texas e l’Arizona, quelle delle sue tante vite che preferisce – quando ricorda il Montana, dove visse bambina, in “Temps perdu”, lo fa da meridionale, tra boschi, campi, paglia, e profonde conversazioni mute, mentre rifiuta Oakland, dove ha vissuto più a lungo. 
La ricetta – il segreto - è comune a queste scrittrici: mescolare l’alto e il basso, un esercizio di grande letteratura. Con l’invenzione continua nell’uso della lingua, il vocabolario è sterminato, e della sintassi – Federica Aceto, che l’ha tradotta, deve averci faticato molto.
Qui si racconta di Cechov, di Mishima - sul supposto passato di Berlin da operatrice sanitaria (si dice infermiera per abbreviare, ma non lo fu, cioè non pretende di esserlo stata) – e subito dopo del modo di raccontare, in prima persona, in terza, in indiretta libera. Tutto abbastanza - molto per un racconto - sofisticato. I racconti hanno titoli in francese, latino, castigliano. E si animano di tutto, anche del niente, sempre amabili. L’accudimento del padre, in casa di riposo, il degrado implacabile. Qua e là lampi della madre anaffettiva, giocatrice e ubriacona ingovernabile. Molti sono i racconti-ricordi famigliari, più di uno della sorella Sally, sposa felice da venticinque anni a Città del Messico, che vi muove di tumore. L’abbandono da parte del primo marito, quando resta incinta di un secondo figlio – abbandona Lucia per un mecenate italiano, che gli finanzia in Italia l’attività di scultore, con una fornace propria. L’idea di aborto, infine rifiutata durante la preparazione. Il Pronto Soccorso, una catena di avventure - magistrale, memorabile, il lungo, interminabile orgasmo che procura un vecchio degente rognoso per un lampo degli occhi a mandorla. La riunione natalizia di famiglia allargata, a El Paso – poi soggetto di molti film. “Un manuale per la donna delle pulizie”, il racconto che è stato scelto come titolo per la stessa raccolta in America, spiega il segreto. Donna delle pulizie è uno dei tanti mestieri che la vulgata fa esercitare a Berlin per sfamare i suoi quattro figli da tre matrimoni (senza alimenti?). Ma è un pezzo umoristico, che sfrutta il punto di vista della donna a ore, senza fatica, con divertimento - un punto di vista che torna in un altro paio di racconti: lavorare come donna delle pulizie è “proprio come leggere un libro”.
Berlin è scrittrice di rara agilità, di umorismo lieve, simpatico, brioso. Come lei stessa era, nelle tante immagini che cominciano a emergere, di rara bellezza, gli occhi e la pelle trasparenti di bambina, ben eretta anche se nella solita vita difficile accampa la scoliosi (“scoliosi, una curvatura, una gobba di fatto”), di vita affettiva intensa, benché sessualmente abusata - sempre nel canone della vita difficile, cosa non accertabile - dal nonno (materno) in Texas, uno del Ku Klux Klan naturalmente, effettivamente moglie di tre mariti diversi, ma tutti in qualche modo presenti, e madre di quattro figli, che parla lo spagnolo come l’inglese, avendo passato l’adolescenza a Santiago del Cile, regina delle feste, e sa anche di italiano. Molta cultura, e una grande fantasia, piana, agevole, “spontanea”. Oberate da una biografia lamentosa.
Come tutti gli scrittori americani Berlin ha una biografia di fatiche e privazioni, drammi psicologici e familiari, e un qualche abuso, sessuale, alcolico, di droghe. Specie gli autori femmine. Specie se del Sud. Autrice di racconti sul filo – bisognerà pur dirlo, una volta cessata la tempesta femminista – della scrittura femminile negli Usa, forte e abile nei racconti. Che tutte, tra l’altro, passano per “scrittori regionali”, o etnici.
La biografia maledetta, o almeno sfortunata, è un tema che andrebbe approfondito, della letteratura americana a partire da Poe, e incluso Melville, altro iperletterato, in parallelo con quella molto rispettabile di Hawthorne, Henry James, et al. Che bisogno denota?
Lucia Berlin, La donna che scriveva racconti, Bollati Boringhieri, pp. 453 € 18,50




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