Giuseppe Leuzzi
“Erano
gli anni 50 quando Ahmed Pasha Fakri, uno dei più importanti proprietari terrieri
della zona, ha iniziato a importare a Shubra Beloula, piccolo borgo a Nord del
Cairo, i fiori di gelsomino dalla Francia per piantarli nei suoi campi” - “il
Venerdì di Repubblica”. Ora fa “più della metà della produzione mondiale di
gelsomini” e lavora all’estrazione dell’olio di gelsomino, “usato per la
produzione di essenze”. Fino agli anni 50 era la produzione della Locride. Poi
abbandonata.
Abbandonata
fu pure la produzione delle banane, sempre nella Locride.
Scriveva
Boccaccio in avvio nel “Decameron” alla novella avventurosa di Landolfo
Rufolo: “Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole
parte d’Italia”. Una “marina” che dalla Calabria proseguiva in Campania “piena
di picciole città, di giardini e di fontane”. Prima c’era tutto, non mancava
nulla, nemmeno la fama.
Nostos – il ritorno alle
origini - può essere altrettanto azzardato, temerario, quanto la partenza,
l’abbandono. È il tema sottotraccia de “L’amica geniale” che in tv risalta di
più. Come già in Omero, con l’“Odissea”.
“Sciascia addio, non servi più”
Nel 2005, più o meno di quest’epoca, il
filosofo catanese Sgalambro, venuto alle cronache per la collaborazione col musicista
Battiato, sollevava un polverone proponendo un nuovo paradigma della Sicilia,
non più ancorato alla mafia e al malaffare - il titolo, eccessivo, è quello di
una grande pagina del “Corriere della sera”, dell’11 febbraio 2005 .
Sciascia era morto da sedici anni,
Sgalambro, 81enne, ne avrebbe vissuto ancora una decina, ancora lucido. Ciò che
lui diceva, infatti, non era in toni e a fini di scandalo, mediatico. Era poca
cosa, e ragionata: non fare i carabinieri, i carabinieri acciuffano i
delinquenti, non fanno la storia.
All’apparenza liquidatorio: “Sciascia era lo scrittore civile, un
maestro di scuola che voleva insegnarci le buone maniere sociali. Ma
rivisitarlo oggi è come rileggere Silvio Pellico. La sua funzione s’è esaurita.
Sciascia non ci serve più. Occorre una nuova riflessione, un’altra coscienza
siciliana”. Ma lo dice per una ragione – la mafia sottintendendo come fattore
economico, dello strozzinaggio, non della violenza fisica, questa lasciata ai carabinieri. “La retorica
non ci serve più”, spiegava a Francesco Battistini: “Se vogliamo che l’economia mafiosa sia un’esistenza
temporanea, se vogliamo una Sicilia che non ha più bisogno economico della
diabolica mafia, non possiamo stare a contemplarla come una statua immobile. A
un intellettuale si chiede di combatterla in un altro modo. Il problema non è
l’esistenza della mafia: è la valutazione che se ne fa. Perché c’è tutto
questo? Non cade dal cielo, è un fenomeno economico ben radicato. E allora gli
intellettuali producano buone opere, i birrai facciano buona birra: inutile
cogitare tutti quanti di mafia, perdere tempo a parlarne. Lavorare il proprio
giardino, alla Candide. Tu cancelli le ombre della mafia operando più di lei,
meglio di lei, opponendo il tuo lavoro al suo”.
Un
economista potrebbe aggiungere che riducendo tutto a mafia il costo si aggrava,
di opinione, politico, bancario, commerciale o di sbocco, in termini di qualità,
prezzo, credito eccetera: la mafia è un collo di bottiglia, una strozzatura,
invalicabile.
Abbandoni
“Sono passati dieci anni dalla frana di
Cavallerizzo, il piccolo centro calabro-albanese, in provincia di Cosenza, scivolato
via nella notte tra il 6 e il 7 marzo del 2005. Una catastrofe prevedibile, e
prevista, che ha messo in fuga e frammentato una comunità”, cosi Vito Teti
iniziava nel 2015 un saggio, “New town, retoriche e abbandoni”, avendo seguito
la vicenda del borgo da vicino: “Oggi Cavallerizzo è una new town:
guarda, come in uno specchio, l’antico borgo abbandonato. Tutti gli sfollati
hanno avuto una casa, sono al sicuro, ma molti di loro sono andati via”.
Lo smottamento era atteso: “Il disboscamento
incontrollato, l’occultamento delle acque, le nuove costruzioni in cemento
armato proprio sull’area franosa, lo svuotamento progressivo del paese per
emigrazione, l’incuria di alcuni amministratori che non avevano preso sul serio
le avvertenze della natura, le strade che si spaccavano, le case che si
abbassavano, le avvertenze inascoltate di tecnici e ingegneri, che però si
scontravano con i pareri di colleghi che rassicuravano: a Cavallerizzo, come ho
raccontato in questi anni, tutto è apparso come la «cronaca di una morte
annunciata»”.
La ricostruzione è stata rapida. “La Protezione
Civile diretta, allora, da Guido Bertolaso, adottò Cavallerizzo come
laboratorio per mettere a punto il proprio “metodo ricostruttivo”, già
sperimentato a San Giuliano e poi, anni dopo, consolidato a L’Aquila”. A un
anno dalla frana un progetto di ricostruzione, definito “il modello Cavallerizzo”,
viene presentato alla popolazione. La posa della prima pietra avviene 26 mesi
dopo, il 7 marzo 2008. Il paese nuovo, come si vede dalle foto che accompagnano
il saggio dell’antropologo, è arioso e solido, con murature robuste, soffitti
alti, esposizione curata. Il 5 febbraio del 2011 ha inizio la consegna degli
alloggi. Alcuni assegnatari li rifiutano. “Prima della frana, a Cavallerizzo si
contavano 105 famiglie; adesso, nella new town, su un totale
di 264 case, le famiglie presenti sono 85. La popolazione attualmente presente
è passata da oltre trecento prima della frana a circa duecento di adesso. Alla
fine, a quanto pare, sono stati spesi più di settanta milioni di euro” - il doppio
del preventivo: non troppo, si direbbe, considerando l’andazzo delle ricostruzioni
italiane.
Teti è perplesso. “Di fronte a tanta enfasi su
quello che veniva definito «il modello Cavallerizzo» scrivevo che l’unicità e
la complessità della gjitonia”,
dell’habitat come era cresciuto, della comunità, “rendeva
impossibile qualsiasi ricostruzione automatica. Peraltro lo schema abitativo e
antropologico delle antiche gjitonie era stato eroso da
profondi processi di trasformazione, dall’esodo, dall’affermarsi di nuovi
criteri abitativi (le case fuori del paese che lasciano vuote quelle
dell’interno), dalla fine di antichi legami. Tutto questo non vuol dire, allora
– come pretendevano i tecnici impegnati nella ricostruzione – “conservare”, ma
significa rinnovare, innovare, e anche inventare, tenendo conto della storia e
dei desideri della gente”
Una ventina di assegnatari hanno scelto di non
trasferirsi in un paese che non sentivano proprio, che non assomigliava a
quello che avevano perduto, e che, due anni dopo, nel 2013, il Consiglio di
Stato dichiarerà abusivo. La morale? Difficile. Ma forse il rifiuto è solo politico.
I Vespri del tramonto in Sicilia
Si suppongono, un po’ anche si celebrano, i
Vespri siciliani come il momento di maggiore libertà della Sicilia, mentre
significarono solo il passaggio dagli Angioini agli Aragonesi, che avviarono la
decadenza dell’isola, con l’incuria quando la governarono da Palermo, poi, da
Napoli, con la trascuratezza. Se la Sicilia angioina non sarebbe stata, unita
con Napoli e mezza Italia, una corte e una nazione di rispetto è questione
ovviamente insolubile – anche se gli Angiò promettevano bene. Ma quella che
succedette ai Vespri ebbe uno sviluppo perfino comico, essendo gli aragonesi una
tribù specialmente versata in conflitti dinastici, tra fratelli, zii, nipoti.
Con la pace di Caltabellotta (1302),
vent’anni dopo i Vespri, l’isola restava a Federico d’Aragona, Federico III, figlio
del re d’Aragona Pietro III il Grande e di Costanza di Sicilia, sposato a una
Eleonora d’Angiò, col titolo di re di Sicilia, e da ultimo di re di Trinacria. Il
regno di Federico, trentennale, prometteva bene: da Palermo sembrò far rivivere
i fasti degli antenati normanni e svevi – la madre Costanza era figlia di
Manfredi, il figlio illegittimo di Federico II, che era stato fra i suoi
successori. Alla morte di Federico III l’isola doveva tornare agli Angioini,
nella figura della sua propria figlia Maria. Ma il re d’Aragona Pietro IV, da
Saragozza, se la tenne, destinandola, anche contro il parere del papa, al
figlio secondogenito Martino il Vecchio – il quale la passò al suo proprio
figlio, Martino il Giovane.
Latitando la corona, i baroni emersero.
Divisi, tra fazione isolana e fazione aragonese. La fazione aragonese ebbe il
sopravvento: presero la regina Maria in custodia e la mandarono in Spagna, dove
fu maritata a Martino il Giovane. Il quale così nel 1392 si poteva coronare, a
Palermo, re di Sicilia. Ma non è finita. Morti Maria (1402) e Martino (1409),
Martino il Vecchio re d’Aragona si dichiarò anche re di Sicilia. Per pochi
mesi, l’anno dopo era morto anche lui, e con lui la casa d’Aragona. Nell’interregno i baroni si dichiararono, per
poter meglio spadroneggiare, per il figlio della sorella di Martino il Vecchio,
Ferdinando di Castiglia. I due regni si riunivano, lasciando l’isola, da
remoto, in mano ai baroni. Segui un secolo di compravendite, della Sicilia e di
Napoli.
Milano
La città si scopre, con orgoglio, scena di
romanzi criminali, gialli, noir, horror: “Negli ultimi due anni una ventina di
romanzi criminali sono stati ambientati in città”, nota “La Lettura”, che questo
numero dedica al fatto. In una chiave: “Anche il crimine a Milano è
liberalizzato. Tanta droga”, finalmente emerge, “colletti bianchi, delinquenti da
trasferta, clan della ‘ndrangheta. Ma nessun monopolio”. Milano città aperta.
Al crimine, con orgoglio? Sembra una favola.
Milano è la frontiera, argomenta sempre su
“La Lettura” Gianni Santucci del “Corriere della sera-Milano”: “Immaginate una
gang di giovani sudamericani che prova a spadroneggiare nelle strade di Napoli
o Palermo: sarebbe disintegrata dalle leggi di strada alla seconda o alla terza
rapina. Milano invece lascia libertà e spazio, tollera, accoglie (anche la
devianza)”. Mah!
Però, fare soldi (buoni) anche con la
devianza, non è male.
Protesta veemente la città, “Corriere della
sera”, “Gazzetta dello Sport”, Currò su “la Repubblica” (Milano val bene una
messa), per l’Udinese che pareggia col Milan con un gol dopo un fallo di mano - forse.
Non si può sbagliare con Milano.
L’Inter perde in casa, per il più classico
dei punteggi, 0-2, contro il Liverpool, partita delicata per il passaggio di turno nella Champions, per i finanziamenti connessi. Ma dalle cronache, della
“Gazzetta dello Sport”, del “Corriere della sera”, sembra che l’Inter abbia
vinto. Ammirevole. E non è una consolazione, è proprio un’esibizione di
superiorità.
“Doc, nelle tue mani”, la serie Rai sulla
superefficiente sanità privata milanese (lombarda), si rivela una storia di
carrierismi e ricatti.
Da non credere, perfino imbarazzante oltre
che noioso, il tifo dei commentatori di Canale 5, Massimo Calegari e Massimo
Paganin, il secondo ex calciatore dell’Inter, per l’Inter in Inter-Juventus per la Supercoppa. Nel secondo tempo più calmi – saranno stati ripresi dalla rete,
per non allontanare il pubblico televisivo, presumibilmente in maggioranza
juventino. Poi fuori di sé alla vittoria a tempo scaduto. Su una rete pure di
proprietà milanista. Milano è sempre un gran Milan. Ma si spiega che non è mai
stata presa in considerazione per essere una capitale, pur essendo la più ricca
del reame.
Si direbbe di Berlusconi che a 85 anni ha perso
qualche rotella. Si voleva presidente della Repubblica. Si sposa, anzi no, si
fidanza, anzi no, insomma sta con una donna di trent’anni. e nessuno gli dice
nulla. Non i figli, non gli amici, non la città. Che lo ha vituperato, perfino
perseguitato, quando era in controllo, e ora lo celebra. Con Milano bisogna essere
poveretti e moribondi, allora si accende – può esercitare la sua superiorità.
È sempre la pulce e l’elefante. Ora c’è la guerra in Ucraina, il sentiment è antirusso, e Milano
censura il maestro Gergiev, Anna Netrebko e, non avendo altri russi sottomano,
Dostoevskij - ha annullato il seminario che Paolo Nori teneva sullo scrittore
all’università. Non se ne fa mancare una: sia domani l’opinione filo
russa, Milano farà monumenti a Gergiev, Netrebko e Dostoevskij.
Altrove sarebbe ridicolo, a Milano no. La città
aveva il cabaret – Fo-Parenti-Durano, Jannacci, il Derby – ma non ha il senso
del ridicolo. È un male?
leuzzi@antiit.eu
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