martedì 1 marzo 2022

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (485)

Giuseppe Leuzzi

“Erano gli anni 50 quando Ahmed Pasha Fakri, uno dei più importanti proprietari terrieri della zona, ha iniziato a importare a Shubra Beloula, piccolo borgo a Nord del Cairo, i fiori di gelsomino dalla Francia per piantarli nei suoi campi” - “il Venerdì di Repubblica”. Ora fa “più della metà della produzione mondiale di gelsomini” e lavora all’estrazione dell’olio di gelsomino, “usato per la produzione di essenze”. Fino agli anni 50 era la produzione della Locride. Poi abbandonata.
Abbandonata fu pure la produzione delle banane, sempre nella Locride.
 
Scriveva Boccaccio in avvio nel “Decameron” alla novella avventurosa di Landolfo Rufolo: “Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’Italia”. Una “marina” che dalla Calabria proseguiva in Campania “piena di picciole città, di giardini e di fontane”. Prima c’era tutto, non mancava nulla, nemmeno la fama.
 
Nostos – il ritorno alle origini - può essere altrettanto azzardato, temerario, quanto la partenza, l’abbandono. È il tema sottotraccia de “L’amica geniale” che in tv risalta di più. Come già in Omero, con l’“Odissea”.
 

Sciascia addio, non servi più”
Nel 2005, più o meno di quest’epoca, il filosofo catanese Sgalambro, venuto alle cronache per la collaborazione col musicista Battiato, sollevava un polverone proponendo un nuovo paradigma della Sicilia, non più ancorato alla mafia e al malaffare - il titolo, eccessivo, è quello di una grande pagina del “Corriere della sera”, dell’11 febbraio 2005 .
Sciascia era morto da sedici anni, Sgalambro, 81enne, ne avrebbe vissuto ancora una decina, ancora lucido. Ciò che lui diceva, infatti, non era in toni e a fini di scandalo, mediatico. Era poca cosa, e ragionata: non fare i carabinieri, i carabinieri acciuffano i delinquenti, non fanno la storia.
All’apparenza liquidatorio: “Sciascia era lo scrittore civile, un maestro di scuola che voleva insegnarci le buone maniere sociali. Ma rivisitarlo oggi è come rileggere Silvio Pellico. La sua funzione s’è esaurita. Sciascia non ci serve più. Occorre una nuova riflessione, un’altra coscienza siciliana”. Ma lo dice per una ragione – la mafia sottintendendo come fattore economico, dello strozzinaggio, non della violenza fisica, questa lasciata ai carabinieri. “La retorica non ci serve più”, spiegava a Francesco Battistini: “Se vogliamo che l’economia mafiosa sia un’esistenza temporanea, se vogliamo una Sicilia che non ha più bisogno economico della diabolica mafia, non possiamo stare a contemplarla come una statua immobile. A un intellettuale si chiede di combatterla in un altro modo. Il problema non è l’esistenza della mafia: è la valutazione che se ne fa. Perché c’è tutto questo? Non cade dal cielo, è un fenomeno economico ben radicato. E allora gli intellettuali producano buone opere, i birrai facciano buona birra: inutile cogitare tutti quanti di mafia, perdere tempo a parlarne. Lavorare il proprio giardino, alla Candide. Tu cancelli le ombre della mafia operando più di lei, meglio di lei, opponendo il tuo lavoro al suo”.
Un economista potrebbe aggiungere che riducendo tutto a mafia il costo si aggrava, di opinione, politico, bancario, commerciale o di sbocco, in termini di qualità, prezzo, credito eccetera: la mafia è un collo di bottiglia, una strozzatura, invalicabile.
 
Abbandoni
Sono passati dieci anni dalla frana di Cavallerizzo, il piccolo centro calabro-albanese, in provincia di Cosenza, scivolato via nella notte tra il 6 e il 7 marzo del 2005. Una catastrofe prevedibile, e prevista, che ha messo in fuga e frammentato una comunità”, cosi Vito Teti iniziava nel 2015 un saggio, “New town, retoriche e abbandoni”, avendo seguito la vicenda del borgo da vicino: “Oggi Cavallerizzo è una new town: guarda, come in uno specchio, l’antico borgo abbandonato. Tutti gli sfollati hanno avuto una casa, sono al sicuro, ma molti di loro sono andati via”.
Lo smottamento era atteso: “Il disboscamento incontrollato, l’occultamento delle acque, le nuove costruzioni in cemento armato proprio sull’area franosa, lo svuotamento progressivo del paese per emigrazione, l’incuria di alcuni amministratori che non avevano preso sul serio le avvertenze della natura, le strade che si spaccavano, le case che si abbassavano, le avvertenze inascoltate di tecnici e ingegneri, che però si scontravano con i pareri di colleghi che rassicuravano: a Cavallerizzo, come ho raccontato in questi anni, tutto è apparso come la «cronaca di una morte annunciata»”.
La ricostruzione è stata rapida. “La Protezione Civile diretta, allora, da Guido Bertolaso, adottò Cavallerizzo come laboratorio per mettere a punto il proprio “metodo ricostruttivo”, già sperimentato a San Giuliano e poi, anni dopo, consolidato a L’Aquila”. A un anno dalla frana un progetto di ricostruzione, definito “il modello Cavallerizzo”, viene presentato alla popolazione. La posa della prima pietra avviene 26 mesi dopo, il 7 marzo 2008. Il paese nuovo, come si vede dalle foto che accompagnano il saggio dell’antropologo, è arioso e solido, con murature robuste, soffitti alti, esposizione curata. Il 5 febbraio del 2011 ha inizio la consegna degli alloggi. Alcuni assegnatari li rifiutano. “Prima della frana, a Cavallerizzo si contavano 105 famiglie; adesso, nella new town, su un totale di 264 case, le famiglie presenti sono 85. La popolazione attualmente presente è passata da oltre trecento prima della frana a circa duecento di adesso. Alla fine, a quanto pare, sono stati spesi più di settanta milioni di euro” - il doppio del preventivo: non troppo, si direbbe, considerando l’andazzo delle ricostruzioni italiane.
Teti è perplesso. “Di fronte a tanta enfasi su quello che veniva definito «il modello Cavallerizzo» scrivevo che l’unicità e la complessità della gjitonia”, dell’habitat come era cresciuto, della comunità, “rendeva impossibile qualsiasi ricostruzione automatica. Peraltro lo schema abitativo e antropologico delle antiche gjitonie era stato eroso da profondi processi di trasformazione, dall’esodo, dall’affermarsi di nuovi criteri abitativi (le case fuori del paese che lasciano vuote quelle dell’interno), dalla fine di antichi legami. Tutto questo non vuol dire, allora – come pretendevano i tecnici impegnati nella ricostruzione – “conservare”, ma significa rinnovare, innovare, e anche inventare, tenendo conto della storia e dei desideri della gente”
Una ventina di assegnatari hanno scelto di non trasferirsi in un paese che non sentivano proprio, che non assomigliava a quello che avevano perduto, e che, due anni dopo, nel 2013, il Consiglio di Stato dichiarerà abusivo. La morale? Difficile. Ma forse il rifiuto è solo politico.
 
I Vespri del tramonto in Sicilia
Si suppongono, un po’ anche si celebrano, i Vespri siciliani come il momento di maggiore libertà della Sicilia, mentre significarono solo il passaggio dagli Angioini agli Aragonesi, che avviarono la decadenza dell’isola, con l’incuria quando la governarono da Palermo, poi, da Napoli, con la trascuratezza. Se la Sicilia angioina non sarebbe stata, unita con Napoli e mezza Italia, una corte e una nazione di rispetto è questione ovviamente insolubile – anche se gli Angiò promettevano bene. Ma quella che succedette ai Vespri ebbe uno sviluppo perfino comico, essendo gli aragonesi una tribù specialmente versata in conflitti dinastici, tra fratelli, zii, nipoti.
Con la pace di Caltabellotta (1302), vent’anni dopo i Vespri, l’isola restava a Federico d’Aragona, Federico III, figlio del re d’Aragona Pietro III il Grande e di Costanza di Sicilia, sposato a una Eleonora d’Angiò, col titolo di re di Sicilia, e da ultimo di re di Trinacria. Il regno di Federico, trentennale, prometteva bene: da Palermo sembrò far rivivere i fasti degli antenati normanni e svevi – la madre Costanza era figlia di Manfredi, il figlio illegittimo di Federico II, che era stato fra i suoi successori. Alla morte di Federico III l’isola doveva tornare agli Angioini, nella figura della sua propria figlia Maria. Ma il re d’Aragona Pietro IV, da Saragozza, se la tenne, destinandola, anche contro il parere del papa, al figlio secondogenito Martino il Vecchio – il quale la passò al suo proprio figlio, Martino il Giovane.
Latitando la corona, i baroni emersero. Divisi, tra fazione isolana e fazione aragonese. La fazione aragonese ebbe il sopravvento: presero la regina Maria in custodia e la mandarono in Spagna, dove fu maritata a Martino il Giovane. Il quale così nel 1392 si poteva coronare, a Palermo, re di Sicilia. Ma non è finita. Morti Maria (1402) e Martino (1409), Martino il Vecchio re d’Aragona si dichiarò anche re di Sicilia. Per pochi mesi, l’anno dopo era morto anche lui, e con lui la casa d’Aragona.  Nell’interregno i baroni si dichiararono, per poter meglio spadroneggiare, per il figlio della sorella di Martino il Vecchio, Ferdinando di Castiglia. I due regni si riunivano, lasciando l’isola, da remoto, in mano ai baroni. Segui un secolo di compravendite, della Sicilia e di Napoli.
 
Milano
La città si scopre, con orgoglio, scena di romanzi criminali, gialli, noir, horror: “Negli ultimi due anni una ventina di romanzi criminali sono stati ambientati in città”, nota “La Lettura”, che questo numero dedica al fatto. In una chiave: “Anche il crimine a Milano è liberalizzato. Tanta droga”, finalmente emerge, “colletti bianchi, delinquenti da trasferta, clan della ‘ndrangheta. Ma nessun monopolio”. Milano città aperta. Al crimine, con orgoglio? Sembra una favola.
 
Milano è la frontiera, argomenta sempre su “La Lettura” Gianni Santucci del “Corriere della sera-Milano”: “Immaginate una gang di giovani sudamericani che prova a spadroneggiare nelle strade di Napoli o Palermo: sarebbe disintegrata dalle leggi di strada alla seconda o alla terza rapina. Milano invece lascia libertà e spazio, tollera, accoglie (anche la devianza)”. Mah!
Però, fare soldi (buoni) anche con la devianza, non è male.
   
Protesta veemente la città, “Corriere della sera”, “Gazzetta dello Sport”, Currò su “la Repubblica” (Milano val bene una messa), per l’Udinese che pareggia col Milan con un gol dopo un fallo di mano - forse. Non si può sbagliare con Milano.

L’Inter perde in casa, per il più classico dei punteggi, 0-2, contro il Liverpool, partita delicata per il passaggio di turno nella Champions, per i finanziamenti connessi. Ma dalle cronache, della “Gazzetta dello Sport”, del “Corriere della sera”, sembra che l’Inter abbia vinto. Ammirevole. E non è una consolazione, è proprio un’esibizione di superiorità.
 
“Doc, nelle tue mani”, la serie Rai sulla superefficiente sanità privata milanese (lombarda), si rivela una storia di carrierismi e ricatti.
 
Da non credere, perfino imbarazzante oltre che noioso, il tifo dei commentatori di Canale 5, Massimo Calegari e Massimo Paganin, il secondo ex calciatore dell’Inter, per l’Inter in Inter-Juventus per la Supercoppa. Nel secondo tempo più calmi – saranno stati ripresi dalla rete, per non allontanare il pubblico televisivo, presumibilmente in maggioranza juventino. Poi fuori di sé alla vittoria a tempo scaduto. Su una rete pure di proprietà milanista. Milano è sempre un gran Milan. Ma si spiega che non è mai stata presa in considerazione per essere una capitale, pur essendo la più ricca del reame.  
 
Si direbbe di Berlusconi che a 85 anni ha perso qualche rotella. Si voleva presidente della Repubblica. Si sposa, anzi no, si fidanza, anzi no, insomma sta con una donna di trent’anni. e nessuno gli dice nulla. Non i figli, non gli amici, non la città. Che lo ha vituperato, perfino perseguitato, quando era in controllo, e ora lo celebra. Con Milano bisogna essere poveretti e moribondi, allora si accende – può esercitare la sua superiorità.

È sempre la pulce e l’elefante. Ora c’è la guerra in Ucraina, il sentiment è antirusso, e Milano censura il maestro Gergiev, Anna Netrebko e, non avendo altri russi sottomano, Dostoevskij - ha annullato il seminario che Paolo Nori teneva sullo scrittore all’università. Non se ne fa mancare una: sia domani l’opinione filo russa, Milano farà monumenti a Gergiev, Netrebko e Dostoevskij.
Altrove sarebbe ridicolo, a Milano no. La città aveva il cabaret – Fo-Parenti-Durano, Jannacci, il Derby – ma non ha il senso del ridicolo. È un male? 

leuzzi@antiit.eu


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