Giuseppe Leuzzi
“Il
padrino, quando la mafia imita il cinema” è la colonna di Morreale sul cinema
per “il Venerdì di Repubblica”. “Il padrino” di Coppola mezzo secolo fa salvò
la Paramount dal fallimento, influenzò molto cinema americano, e aprì un genere
all’Italia, tra giallo, violenza, e una Sicilia mafiosa: “I film italiani sulla
mafia furono almeno una quindicina”. Subito, ora sanno dieci volte tanti, tra
film e serie tv, il genere e il filone più vasto e seguito. Un regalo?
Fra
le tante evocazioni di Aldo Moro emerge Alberto Ronchey, che lo disse
“l’incarnazione del pessimismo meridionale”. Un peccato, cioè. Ma il meridionale
pecca più per pessimismo o non per ironia? C’è differenza. Moro era ironico, per costituzione, negli occhi e nel taglio della bocca.
Il
pessimismo è anche difficile da definire. Pessimista si direbbe per esempio
senz’altro Baudelaire, che invece fu inguaribile ottimista, malgrado i lamenti.
iperattivo, curiosissimo, e sempre in palla.
“Montalbano”,
“Màkari”, “Imma Tataranni”, i grandi successi Rai del lunedì, il giorno più
difficile, sono meridionali: i personaggi, i luoghi, esterni e interni, le psicologie,
i parlati. Il Sud è più avventuroso, più invidiabile?
O
gli spettatori sono al Sud più assidui alla televisione – ci vorrebbe un auditel
regionalizzato?
Il
pesce spada è di stagione nello Stretto di Messina nei mesi “senza la r”. È una
regola inderogabile, nessuno consuma pesce spada fuori di quei mesi. In
Danimarca, si apprende dal film premio Oscar “Un altro giro”, il merluzzo è di
stagione nei mesi “con la r”.
I
danesi essendo considerati i meridionali della Scandinavia (famiglia, sole,
canto, vino, manca solo il mandolino), sarebbero le fisse alimentari cosa meridionale?
A Milano l’università Bicocca elimina un
corso su Dostoevskij, per protestare contro l’invasione russa dell’Ucraina.
Dopo che il sindaco Sala ha chiesto al maestro Gergiev un atto d’accusa contro
la Russia, la sua patria, per poter dirigere alla Scala come da programma. A Bologna
la Fiera del libro per l’infanzia elimina la letteratura russa. Il Nord parte
alla guerra: non costa niente, solo un po’ (molto?) di stupidità. C’è però da
averne paura.
L’“Io” è “una popolazione”, Carlo Dossi:
“Non ho io forse in me stesso una popolazione di lì, l’uno diverso dall’altro” (“Note
azzurre”, 2369). Si nasce radicati, e si resta radicati, anche nella
lontananza-assenza.
Il comune di Grizzana Morandi, sull’Appenino
bolognese, 3.916 abitanti, 547 m. di altezza, riceve 20 milioni di euro dal
Pnrr. Quattro bilanci e mezzo del Comune. Per le sue frazioni di La Scola, sedici residenti, e
Campo, quarantaquattro. Per “riqualificare” i due borghi “fortemente spopolati”:
scuola per scalpellini, recupero di (poche) case abbndonate, completamento e
restauro di una Rocchetta Mattei (un rudere), con studi cinematografici
all’interno. È uno dei perni del programma della Regione Emilia-Romagna. Simpatico.
Fosse avvenuto in Sicilia?
Contrordine, non è il Sud che bara sull’ecobonus.
L’inchiesta della Guardia di Finanza di Rimini che denunciava una banda di
criminali di Abruzzo, Puglia, Basilicata, Campania, Sicilia (in realtà di riminesi,
con qualche comparsa da queste regioni: manovali, subappalatatori), è superata
dalla Guardia di Finanza di Roma che “in due sole operazioni” ha recuperato il
56 per cento dei 2,3 miliardi di crediti d’imposta illeciti recuperati finora
in Italia. Bisogna guardarsi anche dalla Guardia di Finanza?
Nell’autunno del 1978 Sciascia, avendo deciso
di fare per un breve periodo il critico teatrale per “L’Espresso”, comincia col
rivedere il teatro di Racalmuto, della sua infanzia. Racalmuto aveva un teatro,
nell’Ottocento e nel primo Novecento: “La stagione teatrale era lunga e splendida”,
con la partecipazione delle migliori compagnie, “dall’anno in cui l’architetto Dionisio
Sciascia (non parente, n.d.r.) aveva consegnato all’amministrazione comunale,
dopo cinque anni, quel piccolo capolavoro. Anno 1879”. Lo trova in rovina – “mi è parso di trovarmi
dentro una delle carceri di Piranesi”. La storia va “n’arreri” – Domenico
Tempio?
Mafiosa diventa la memoria
Il Canzoniere delle Lame, il complesso
emiliano che animava le “Feste dell’Unità”, del partito Comunista, fu mandato
nell’autunno del 1970 a Reggio Calabria per provare a rianimare gli anti-“boia-chi-molla”
della rivolta fascista. Vi composero all’impronta, come erano soliti lavorare,
canzoni di circostanza, scrivendo parole e musica in accordo con le persone che
animavano le proteste o le feste, “Alle Sbarre qui di Reggio Calabria”, “La
rabbia esplode a Reggio Calabria”. E furono mandati anche a Rosarno.
Qui, nel docufilm del Canzoniere, “Gli
anni che cantano”, l’animatrice del gruppo Janna Cairoti ha un lapsus. Lei racconta,
e il regista Vendemmiati fa vedere, di una serata in una piazza vuota. Cioè,
ricorda che, avendo deciso di non cantare, i compagni di Rosarno avevano insistito:
“Non fa niente, cantate pure, la gente vi ascolta dietro le finestre”. E Janna
commenta, ma un po’ incerta: “Avevano paura della mafia”.
È probabilmente un lapsus. Sarà stato a Reggio
che il Canzoniere avrà avuto difficoltà a farsi ascoltare, lì il seguito era
sparuto. Rosarno votava socialcomunista, con un sindaco ora socialista ora comunista. Il Canzoniere sarà stato a Rosarno, una delle
sue due o tre uscite fuori dall’Emilia, per l’insistenza dell’amministrazione, se
non per una “festa dell’Unità” paesana. Ma il nome oggi è legato alla protesta
degli immigrati dodici anni fa. E la cattiva fama legata a quell’evento
riverbera sulla memoria.
Gli immigrati protestarono a Rosarno
perché in qualche misura sindacalizzati, Rosarno avendo continuato a votare a
sinistra. Ma questo è fuori del cliché.
Pasolini non amava il Sud
Per il centenario di Pasolini anche il Sud
si mobilita, a partire da Lecce, Melpignano e Arnesano, per un ciclo di
manifestazioni itineranti dedicate a lui e alle culture vernacolari del Sud.
Musica, parole, proiezioni, “ispirate all’amore di Pasolini per il Sud”, su
proposta del Collettivo Quo Vadis? dell’associazione Patr’Act, patrimonio
attivo. Un ciclo organizzato dal comune di Melpignano e dall’associazione
Manigold. Con un progetto drammaturgico, “Volgar’Eloquio. L’amore di Pasolini
per il Sud”. In ricordo anche della sua ultima conferenza, tenuta al Liceo
Palmieri di Lecce il 21 ottobre 1975.
Ma Pasolini non amava il Sud – Pasolini non
amava, e il Sud gli era estraneo.
“Il Sud per Pasolini non fu solo un luogo
geografico ma una regione dell’anima”, nota Marino Niola presentando il
progetto. È vero, per alcune, poche, occorrenze della sua multiforme attività: Matera,
Ninetto Davoli, il ragazzo napoletano che gli sfida il borsello durante le effusioni, la “Medea”. Ma
fu – non era, fu – giusto un luogo diverso, come lo fu l’Africa, l’India. Di
curiosità.
“Il Mezzogiorno per Pasolini fu sempre l’altra
faccia della mutazione antropologica italiana”, continua Niola: “Non un luogo
in ritardo dello sviluppo, ma la testimonianza di una differenza, custodita nella
lingua e nelle tradizioni. Una sorta di antidoto contro il genocidio culturale
prodotto dalla modernizzazione che a suo avviso stava sfigurando il volto
dell’Italia. Rendendola un paese straniero a se stesso”. Non un antidoto: Sud e
Nord Pasolini accomunava nel “genocidio”.
Del Sud si occupò di passata, distrattamente.
Non solo nel viaggio in due giorni per tutta la costa italiana quanto è lunga,
ma sempre altrettanto di fretta.
Il Sud come colpa
Di Commisso, l’imprenditore americano che
ha rilevato la Fiorentina, la squadra di calcio, e la sta dotando di un “Viola Park”, centro sportivo molto
grande, da 25 ettari, e di uno stadio ammodernato, non si fa che accularlo alle
origini, a Marina di Gioiosa Jonica in Calabria. Per sottintendere, siamo
furbi, l’inevitabile legame ‘ndranghetista. Anche a costo di rovesciare il cliché
dell’emigrato, non più vittima della patria ingrata, ma, chissà, avventuriero,
intrigante, capobastone – dove c’è Calabria c’è ‘ndrangheta è assioma corrente,
anche dei giudici, calabresi.
Niente al confronto avevano fatto per la
Fiorentina in molti anni i fratelli Della Valle, gli imprenditori del lusso. Sempre
però omaggiati, non erano calabresi. Un meridionale di successo non la conta
giusta.
Geraldine Ferraro nel
1983 maturò l’idea di candidarsi alla vicepresidenza degli Stati Uniti l’anno
successivo in ticket col candidato democratico di sinistra
Walter Mondale. Subito un investigatore fu inviato dal partito Repubblicano a
Messina e sui Peloritani, per cercare tra i parenti di Geraldine un qualche
mafioso. La famiglia di Geraldine risultava originaria di Marcianise, in
provincia di Caserta, ma un suo parente prossimo, pare uno zio, forse materno,
risultava essere o essere stato nel messinese. O così si premurava di far
sapere l’investigatore subito mandato dagli Usa, anche alla “Gazzetta del Sud”,
il quotidiano locale: l’amerikano non si nascondeva, e anzi si premurò di far
sapere che era lì per quello.
Non ebbe da faticare, la
lauta parcella anzi se la guadagnò con gaudio: tutti furono felici di
raccontargli che Geraldine aveva uno zio pregiudicato. Che lei non ne sapesse
l’esistenza non voleva dire nulla. Una lezione per i Carabinieri, che sempre
lamentano l’omertà.
L’investigatore
anti-Ferraro voleva “sapere” tutto, a prescindere dal fatto che lo zio ci
fosse, o ci fosse una parentela riconosciuta. Aveva il compito d’indagare,
disse, su tutto: sulla cartella penale ma anche sulle cartelle fiscali, su
quelle mediche, se l’uomo non aveva barato con le assicurazioni o la sicurezza
sociale, se aveva pagato i contributi delle sue colf e baby-sitter, etc.
Costruiva con elementi sicuri un colpevole. Di cui gli sarebbe rimasto da
provare, se necessario, un qualche legame con la vice-presidente candidata. Ma
non fu necessario: il ticket Ferraro-Mondale si scontrò male col Reagan
bis.
Ferraro personalmente uscì
bene dalla sconfitta: la sua campagna elettorale fu apprezzata, la sconfitta fu
attribuita al freddo Mondale. Ma quando si candidò al Senato, i Repubblicani
fecero circolare voci di sue connessioni con la mafia, sull’evidenza delle sue
origini italiane, e non fu eletta.
Il corrispondente mafioso di Sciascia
In “Nero su nero”, il diario in pubblico
nei dieci anni dal 1969 al 1979, tenuto su “L’Ora”, “La Stampa”, “Corriere
della sera”, Sciascia racconta per alcune pagine una sua corrispondenza col mafioso
Giuseppe Sirchia, confinato a Linosa, a partire dal giugno 1972. Notevolissima.
Di elocuzioni perfette in lingua. Di retorica sottile. Di argomentazioni mai scontate.
“La sua prima lettera diceva: è venuto qui
a Linosa un giornalista tedesco, mi ha parlato dei suoi libri; vorrei leggerli
ma non so come fare per averli”. Sciascia glieli fa spedire. Sirchia lo
ringrazia e, scusandosi, gli pone il quesito: “Perché io sì e «loro» no?” Per loro intendendo i suoi soci in affari, non
ritenuti, chissà perché, mafiosi, perché politici o professionisti.
Le lettere s’indovinano molteplici. Di Sciascia
Sirchia apprezza la “cruda verità” sulla Sicilia, “non sempre coerente alla
vita civile e morale”. Ne riferisce anche una curiosa, ma non balzana, teoria dell’omertà: “In
Sicilia l’omertà bisogna rispettarla in qualsiasi settore, politica, polizia,
giustizia, etc.”. La sua personale condizione Sirchia assimila allo “schiavismo”: “Le
mie figliole … studiano e spero che, almeno loro, riscatteranno il marchio
dello schiavismo di cui io sono stigmatizzato”. La possibile tentazione di Sciascia
di rendere pubblica la corrispondenza vanifica in anticipo: “Ora smetto,
pregandola che le sue confidenze siano solo sue, perché voglio vivere in pace,
voglio rifarmi una vita, non potrò essere io a cambiare qualcosa. Io sono
soltanto una piccola tessera di un grande mosaico (che è la Società) e se non
voglio essere schiacciato, bisogna che mi stia incastronato nella mia casella”.
Incastronato Sciascia apprezza
più che incastonato. Ma la Società maiuscola legge, come tutti, come cupola mafiosa.
Mentre più verosimilmente è la società in senso proprio, un mammut, più cattivo
che insensibile – il mafioso è anarchico.
leuzzi@antiit.eu
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