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Chi era Pasolini 13
“L’estate del 1943 era bellissima e la
guerra aveva reso Casarsa un luogo ancora più desiderabile”. Pasolini, 21 anni,
e Naldini, 14, trovavano compagnia in abbondanza per giochi erotici.
Pasolini di preferenza con un Bruno, “ragazzotto né bello né dolce, ma plebeo,
violento e sgarbato che coronò in modo sbrigativo e brutale il sogno così a lungo
cullato da Pier Paolo”, Naldini con un Attilio.
I racconti di Nico Naldini, “Come ci si
difende dai ricordi”, una successione di ordinari dragaggi, dell’uno e
dell’altro, che non lascia mai traccia, se non dell’inappagamento, rappresentano e spiegano il tema della colpa, che sarà centrale in Pasolini: la sessualità non
sarà mai diletto e gioco, come a volte si diceva, ma tormento. Perfino nella forma della gelosia, cupa e violenta, in almeno un caso (Ninetto Davoli adolescente, una storia che la riedizione delle lettere denuncia con la censura...).
Saranno storie di ragazzi più che di
amori. Di cacce di ragazzi. Anche rischiose legalmente. Ma più indispettite che lussuriose. Già nei primi
anni, a Casarsa e Versuta, gli anni della guerra, anzi quelli più brutti, 1943
e 1944, dei bombardamenti, dell’occupazione, della resistenza o guerra civile. La guerra non c’è, se non per il bello del biondo teutonico, e per i
lampioni abbuiati, che lasciano spazio per “gli insaziabili abbracci” nel “buio
più fitto”. Naldini lo sa, che si giustifica: “Non sapevamo quasi nulla della
guerra”. Nell’inappagamento, la vera condanna, la vera colpa. Della “libidine
compulsiva soprannumeraria”, la dice Naldini, incontenibile e insoddisfatta.
Nel caso di Pasolini nevrotica, sempre “per bene” e sempre in “situazioni
allarmanti”.
Compresa, si direbbe, la religiosità. Non
praticata ma vissuta. Specie nelle idolatriche - decadenti, affettate – rappresentazioni
del sacro, mitico oppure cristiano, a partire dalla figura del Cristo, seppure
femminilizzata. Pasolini è l’unico autore religioso del secondo Novecento, ne
“L’usignuolo”, “In forma di rosa”, e altrove, anzi di tutto il secolo. Voleva
fare San Paolo, dopo aver fatto il Vangelo. Non il prete, chiesastico: un
rivoluzionario, seppure con la parola. Ma anche questo non del tutto: si
riporta il papa Bergoglio a Giovanni XXIII, ma si potrebbe meglio riportarlo a
Pasolini, strada, borgate e omosessualità comprese.
Pasolini fu e rimane solo. Non un
amico, uno della squadra di pallone, un compagno di viaggio, anche occasionale,
purché non di marchette, non un discepolo. Benché socievole, di tutti i
convegni, le manifestazioni, le iniziative, le tavolate, quasi un
presenzialista. Non per carattere: non era solitario in gioventù, prima di
Roma, fino quindi ai 28 anni. Isolato anche dopo morto: senza ora, pur nelle
celebrazioni, un interprete, un “sistematore”, l’esegeta folgorante che pure
meriterebbe, se non altro per la molteplicità delle espressioni: poeta, narratore,
regista, drammaturgo, critico letterario, linguista, moralista, giornalista,
pittore - “L’affollata solitudine di Pasolini” è il titolo centrato con cui il
“Corriere della sera” presentava il 26 ottobre 2015, per i quarant’anni dalla
morte, la testimonianza di De Ceccaty, uno dei suoi prefatori: “Non so se fosse solo. Aveva probabilmente il
sentimento della solitudine ma c’erano tanti amici attorno a lui. Il sentimento
di solitudine per un creatore, per un genio come lui, è molto relativo.
Pasolini, anche se si identificava molto con Rimbaud, non era Rimbaud. Era
infatti molto più coinvolto nella vita sociale, era un poeta civile, non era un
poeta isolato”. Ma lo era, da poeta civile. Della sterilità dell’impegno si potrebbero
fare libri.
Pasolini sbaglia che lamenta, nella
“Supplica a mia madre”: “Non voglio esser solo. Ho un’infinita fame\ d’amore,
dell’amore di corpi senza anima” - può finire male. Pasolini si lamenta vittima dell’iterazione, della compulsione a
rifarlo, con chiunque, ovunque, vittima della sua diversità, da intendere
l’omofilia, e non sa di dare ragione agli omofobi, che l’omosessuale è senza
cuore, mentre è probabile che subisse l’incontinenza dei cinquanta, dell’età
che fugge. È impossibile amare i moralisti.
Perché questa cosa è importante? Perché Pasolini ne è
morto, già prima di finire a Ostia. Nel tradimento,
continuato, di Susanna, la madre vezzosa sempre a tiro, sui tacchi nel fango di Versuta, sposa pur
sempre di un Carlo Pasolini dell’Onda, padre amorevole, sebbene reduce di
guerra trascurato, rifiutato, amareggiato. La madre
dolce che cancella il marito, il tremulo nibbio di Leonardo e Freud - lo è nei
geroglifici in Egitto. Nella leggenda cristiana il nibbio è solo femmina,
fecondata dal vento, novella Vergine. Se l’omosessualità, forzatamente senza
figli, è narcisista, la moltiplicazione delle marchette diventa un martello
pneumatico contro se stessi, una forma di autocrocefissione, la morte oscena.
Non si sa di un erotismo goduto
infernalmente, neppure in Sade. Non nell’esercizio esasperato
dell’omosessualità, la retorica del genere è mite. Pasolini voleva essere il
Poeta della Vita, di ciò che è. E la realtà, essendo beffarda, gli ha
restituito odio e umiliazione. E disattenzione, nella baldoria.
(fine)
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