domenica 20 marzo 2022

Chi era Pasolini 13

“L’estate del 1943 era bellissima e la guerra aveva reso Casarsa un luogo ancora più desiderabile”. Pasolini, 21 anni, e Naldini, 14, trovavano compagnia in abbondanza per giochi erotici. Pasolini di preferenza con un Bruno, “ragazzotto né bello né dolce, ma plebeo, violento e sgarbato che coronò in modo sbrigativo e brutale il sogno così a lungo cullato da Pier Paolo”, Naldini con un Attilio.
I racconti di Nico Naldini, “Come ci si difende dai ricordi”, una successione di ordinari dragaggi, dell’uno e dell’altro, che non lascia mai traccia, se non dell’inappagamento, rappresentano e spiegano il tema della colpa, che sarà centrale in Pasolini: la sessualità non sarà mai diletto e gioco, come a volte si diceva, ma tormento. Perfino nella forma della gelosia, cupa e violenta, in almeno un caso (Ninetto Davoli adolescente, una storia che la riedizione delle lettere denuncia con la censura...). 
Saranno storie di ragazzi più che di amori. Di cacce di ragazzi. Anche rischiose legalmente. Ma  più indispettite che lussuriose. Già nei primi anni, a Casarsa e Versuta, gli anni della guerra, anzi quelli più brutti, 1943 e 1944, dei bombardamenti, dell’occupazione, della resistenza o guerra civile. La guerra non c’è, se non per il bello del biondo teutonico, e per i lampioni abbuiati, che lasciano spazio per “gli insaziabili abbracci” nel “buio più fitto”. Naldini lo sa, che si giustifica: “Non sapevamo quasi nulla della guerra”. Nell’inappagamento, la vera condanna, la vera colpa. Della “libidine compulsiva soprannumeraria”, la dice Naldini, incontenibile e insoddisfatta. Nel caso di Pasolini nevrotica, sempre “per bene” e sempre in “situazioni allarmanti”.
Compresa, si direbbe, la religiosità. Non praticata ma vissuta. Specie nelle idolatriche - decadenti, affettate – rappresentazioni del sacro, mitico oppure cristiano, a partire dalla figura del Cristo, seppure femminilizzata. Pasolini è l’unico autore religioso del secondo Novecento, ne “L’usignuolo”, “In forma di rosa”, e altrove, anzi di tutto il secolo. Voleva fare San Paolo, dopo aver fatto il Vangelo. Non il prete, chiesastico: un rivoluzionario, seppure con la parola. Ma anche questo non del tutto: si riporta il papa Bergoglio a Giovanni XXIII, ma si potrebbe meglio riportarlo a Pasolini, strada, borgate e omosessualità comprese.
Pasolini fu e rimane solo. Non un amico, uno della squadra di pallone, un compagno di viaggio, anche occasionale, purché non di marchette, non un discepolo. Benché socievole, di tutti i convegni, le manifestazioni, le iniziative, le tavolate, quasi un presenzialista. Non per carattere: non era solitario in gioventù, prima di Roma, fino quindi ai 28 anni. Isolato anche dopo morto: senza ora, pur nelle celebrazioni, un interprete, un “sistematore”, l’esegeta folgorante che pure meriterebbe, se non altro per la molteplicità delle espressioni: poeta, narratore, regista, drammaturgo, critico letterario, linguista, moralista, giornalista, pittore - “L’affollata solitudine di Pasolini” è il titolo centrato con cui il “Corriere della sera” presentava il 26 ottobre 2015, per i quarant’anni dalla morte, la testimonianza di De Ceccaty, uno dei suoi prefatori: Non so se fosse solo. Aveva probabilmente il sentimento della solitudine ma c’erano tanti amici attorno a lui. Il sentimento di solitudine per un creatore, per un genio come lui, è molto relativo. Pasolini, anche se si identificava molto con Rimbaud, non era Rimbaud. Era infatti molto più coinvolto nella vita sociale, era un poeta civile, non era un poeta isolato”. Ma lo era, da poeta civile. Della sterilità dell’impegno si potrebbero fare libri.
Pasolini sbaglia che lamenta, nella “Supplica a mia madre”: “Non voglio esser solo. Ho un’infinita fame\ d’amore, dell’amore di corpi senza anima” - può finire male. Pasolini si lamenta vittima dell’iterazione, della compulsione a rifarlo, con chiunque, ovunque, vittima della sua diversità, da intendere l’omofilia, e non sa di dare ragione agli omofobi, che l’omosessuale è senza cuore, mentre è probabile che subisse l’incontinenza dei cinquanta, dell’età che fugge. È impossibile amare i moralisti.
Perché questa cosa è importante? Perché Pasolini ne è morto, già prima di finire a Ostia. Nel tradimento, continuato, di Susanna, la madre vezzosa sempre a tiro, sui tacchi nel fango di Versuta, sposa pur sempre di un Carlo Pasolini dell’Onda, padre amorevole, sebbene reduce di guerra trascurato, rifiutato, amareggiato. La madre dolce che cancella il marito, il tremulo nibbio di Leonardo e Freud - lo è nei geroglifici in Egitto. Nella leggenda cristiana il nibbio è solo femmina, fecondata dal vento, novella Vergine. Se l’omosessualità, forzatamente senza figli, è narcisista, la moltiplicazione delle marchette diventa un martello pneumatico contro se stessi, una forma di autocrocefissione, la morte oscena.
Non si sa di un erotismo goduto infernalmente, neppure in Sade. Non nell’esercizio esasperato dell’omosessualità, la retorica del genere è mite. Pasolini voleva essere il Poeta della Vita, di ciò che è. E la realtà, essendo beffarda, gli ha restituito odio e umiliazione. E disattenzione, nella baldoria.
(fine)

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