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mercoledì 9 marzo 2022

Chi era Pasolini - 2

In quanto personaggio, il Pasolini senza dubbio più incisivo e duraturo riesce alla rilettura tanto brillante quanto inconcludente. Come è dei polemisti: talmente anticonformista da mordersi la coda. Si nota specialmente dopo, a distanza, ma anche in vita se ne poteva leggere l’evangelico è necessario dare scandalo maneggiato con calcolata disinvoltura per scandalizzare il borghese. Per il modo di porsi, e anche per una biografia che lui non nascondeva o negava, e non si può evitare.
Era un passatista – “l’unica forza contestatrice è il passato”. Non un tradizionalista, alla Guénon, alla Evola, alla Eliade. Un medievista. E non alla san Francesco - amava il suo piccolo lusso e le comodità, curava l’abbigliamento, la capigliatura, le “buone cose di pessimo gusto”, l’automobile, la casa, le seconde case, in campagna, al mare, i ritratti, propri. Benché morendo a capo, a suo dire, di “dieci anni che hanno visto la consumazione di un genocidio umano e antropologico”, confidava a Scola che lo voleva il Virgilio di un suo film. E però nemmeno disperato: progettava, dopo la sfida di “Salò-Sade”, un “Porno-Teo-Kolossal” – per la “femminilizzazione del maschile”, vasto programma. E un “Petrolio” di duemila pagine. Incapace di una relazione affettiva, una vita di marchette.
Era contro il divorzio, al referendum del 1974. E poi contro le ipotesi di regolazione dell’aborto.  E contro al scuola. Qui modellandosi su Papini. O su Longanesi – identiche le bestie nere: edonismo, materialismo, e tante frasi, “La scuola inutile” diceva un libro del “Borghese” longanesiano, prima di diventare fascista, alcuni anni prima. Storicamente, fu l’esigenza del servizio militare obbligatorio a creare l’istruzione obbligatoria, roba da caserma (questa gli è mancata).
Con la comoda metafora guicciardiniana del “palazzo” poteva permettersi tutto, basta mettersene fuori. Un buon retore, se ancora incanta, ma non un buon maestro.  
Ancora nel 1974, al processo, non volle colpe del Pci a Porzûs. Al fratello Guido, che pure ricorda “generoso e entusiasta”, che era sfuggito all’agguato ma fu rincorso e finito dopo essersi arreso, limitandosi a dedicare un compitino, tra parche e fati, lui che ogni evento turbava. Scusandolo su “Vie nuove”, l’illustrato del Partito: “Credo che non ci sia nessun comunista che possa disapprovare l’operato di Guido”. Morto di diciannove anni, si ricorderà, vittima della sottomissione che Togliatti aveva ordinato, con lettera circolare, alla causa internazionalista, nella fattispecie slava. Guido il mal amato, indifferente alla madre, che aveva opposto i pugni quando i compagni al ginnasio deridevano il fratello maggiore ricchione, riportandone commozione cerebrale. Nei dodici mesi di guerra partigiana Pier Paolo se ne era stato chiuso in casa, sfollato dove non c’erano rischi, neanche l’arruolamento forzato di Salò, lui che da bambino giocava ai soldati.
Da ultimo, nel romanzo “Petrolio”, flirterà col peggiore complottismo di quegli anni, complotti tristi, quasi settimanali, da spie tristi, senza arguirne la miseria. Ad agosto 1975 vedeva Moro morto: “La meccanica delle divisioni politiche del Palazzo è come impazzita: essa obbedisce a regole la cui «anima» (Moro) è morta”, vaticinava. Mentre Moro occupava le piazze. “Non ci processerete nelle piazze”, urlando - “non me vivo”, sembrava dire. Accantonando il meridionale understatement e la scaramantica stanchezza - come quando alla Camera negò il Piano Solo. E sostenendo, giurisperito emerito, che “il partito viene prima dello Stato” – il Partito è lo Stato era Togliatti, non l’anarchia ma una presa di possesso rapida.
L’ananke che corsaro lamentava sarà stata la colpa. Nonché la Resistenza, non fece neppure la guerra, se non per pochi giorni dopo l’8 settembre, e aveva vent’anni: l’occupazione passerà libero a Casarsa, solo fremendo per corpi giovani. A ventuno, a guerra non ancora perduta, per la quale caldi disegni abbozzava e consensi raccoglieva nel fascista “Setaccio”, si schierava in divisa littoria all’università per denunciare gli amici disfattisti. “Da uomo”, riconosce ne “La realtà”, “senza umanità,\ da inconscio succube o spia,\  o torbido cacciatore di benevolenza” – i fratelli Telmon, Sergio, il suo amico d’allora, e Giorgio non ne serbavano grato ricordo. Dopodiché la cultura europea scopriva a Weimar, nel viaggio premio della gioventù fascista. “Le onde” avendo calcato, “per qualche tempo, che mandano\ alla Rivolta Reazionaria”. Ora, se Pasolini fosse fascista, i suoi ragionamenti sarebbero detti fascisti. Ma lui si vuole comunista, indefettibile. Ha per questo dimenticato il fratellino partigiano, ucciso a tradimento dai comunisti, e la persecuzione dei comunisti in quanto pederasta impunito. Il Partito celebrando, retorico, liturgico, devoto.
(
continua)

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