sabato 12 marzo 2022

Chi era Pasolini 5

Il poeta assassinato è una novità assoluta, anche in un paese che fa sacrifici umani quotidiani, senza piume, senza sole, senza serpenti che si mordono la coda, senza neanche i riti né il mistero degli azteca, o la dignità. Benché Henze abbia denunciato ignoti assassini d’Ingeborg Bachmann. E dunque a Roma si assassinano i poeti, ecco il complotto che si scopre – e basta e avanza. Un paese senza, lo chiama Arbasino, che ancora si meraviglia. E invece ha stomaco vorace, ruminante: eccitabile, non rifiuta nessun cibo, ma indifferente. Brutale e apatico, ecco perché non fa le rivoluzioni. Il giudice Di Gennaro, lo stesso che i Nap avevano sequestrato, che per condannare Pasolini analizzò in tribunale “La ricotta” alla moviola, è autore di un progetto di carcere aperto e ammira i suoi sequestratori: “Gente straordinariamente informata e coraggiosa, molto intelligenti e preparati”. Un magistrato compagno, che in tribunale contro Pasolini di sé pretese: “Il diverso sono io”.
Ma la verità è che non si uccide il padre impunemente, da quello che si sa dalle tragedie. Né è salvezza l’amore della mamma, il bisogno della maternità, la purezza del non essere nati. “La realtà” nelle “Poesie in forma di rosa”: “Il mio amore\ è solo per la donna: infanta e madre.\ Per loro, i miei coetanei, i figli… arde\ in me solo la carne”. Pasolini protestò dopo la provvisoria condanna della “Ricotta”, lo fece eccitato con Moravia e con lo stesso Di Gennaro, l’unica volta che reagì nervoso alle alchimie giudiziarie, perché la madre Susanna era svenuta alla notizia. Alla madre scrisse: “Sei insostituibile. Per questo è dannata\ alla solitudine la vita che mi è data.\ E non voglio essere solo. Ho un’infinita fame\ d’amore, dell’amore di corpi senz’anima”. Vivevano nella stessa piccola stanza sfollati a Versuta, e passeggiavano come fidanzati all’occhio dei paesani, avendo abbandonato il padre sconfitto solo di notte di nascosto a Casarsa.
Uno di quei corpi senz’anima lo ha abbattuto e sconciato. Non sapendo neppure perché: se c’è complotto è della realtà senza ragione. S’era scritto in questa chiave il coccodrillo: “Lacrime di commozione su me\ stesso morto: è noto\ che, delle cose del mondo, questa è una delle più piacevoli”. Celebrava la felicità del lutto, che ogni giorno viveva. Lui ch’era dotato della magia, in ogni creazione e nei gesti – se non è la grazia, che dunque c’è pure nel peccato. Ma col vizio incessante, una sorta di pena originale, di mutilarsi. La parola ha così ridotto alla tecnica, i segni, i suoni. E l’amore: “I posti\ dove fare l’amore furono centinaia\ e tutti fetidi”, ha scritto. Non per scandalizzare i benpensanti, vittima dell’“ossessione patetica, che mi è propria”. Contro la quale non seppe rivoltarsi.
Troppe volte ha antevisto la sua morte: “Guardo con gli occhi\ d’un’immagine gli addetti al linciaggio”. Per essere forse già morto. Si muore per i familiari, i simili, gli amici. Non si muore perché la mafia, o lo Stato, o un ragazzo spaurito o prezzolato ha deciso di uccidere. In tal caso anzi si acquista vigoria e buona cera, diventando interlocutori dei più, i bene intenzionati, e soggetti d’ispirazione, commozione, avventura, consolazione. Assassinio vero è recidere i fili che legano l’uomo al mondo, con forza talvolta, più spesso con la sottigliezza, lo sberleffo, l’insinuazione. Con l’odio. La cultura della morte è cultura morta. “Io so”, diceva. E certo è uno che sa. Anche se non ha detto la verità, non tutta.
Non sulla rivoluzione: “Siamo tutti rivoluzionari”, diceva, ma era confuso. “Più giusto, più buono” diceva “un mondo repressivo di un mondo tollerante, perché nella repressione si vivono le grandi tragedie, nascono la santità e l’eroismo”. Per fare felici i prefetti d’Italia, pigmalioni di santi. La sua intima natura, avrebbe detto di lui Thomas Mann, era libertinaggio, spirito zingaresco, frivolezza. Gli mancava la fedeltà, e se ne fece un dovere. O anche, sempre Mann, che lo diceva dei bambini: “A chi vive del sogno la realtà sempre appare più sogno di ogni sogno, e più profonda è la lusinga”. Così la fece al cinema, nei colori, le pause, le madonne, gli angeli, dove il realismo non doveva fingere dell’impegno.
I testimoni sono scomodi. Il poeta si può dire vittima della giustizia violenta che voleva. Da estremista insaziabile. Solo col suo Io, un santo. O un traditore. Questa fine è un suicidio, dice il cinico Moravia, tanto l’ha cercata. Sono traditi i traditori. Del fratello, dell’innocenza, del bene, della verità. Beffati, da giudici, affetti mercenari, compagni ipocriti di strada, compagni di Partito, che sempre tradisce - la morte lo salva dall’abiezione del conformismo, di sciocco interprete del Partito, che per questo non lo molla, lo vuole sul monumento morto per sempre.
(continua)

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