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Chi era Pasolini 10
Il cinema dà
felicità, più dell’Ariosto quando si cantava a memoria. Grande invenzione
mitica, che Pasolini ha amato e non demolito. Benché nutrito di visi tenuti con
lo scotch, drogati, alcolizzati, sfioriti. E di promesse di lussuria in corpi
sterili, perfino avvizziti - il diritto alla felicità genera infelicità. Per la
forza del mito, una sorta di preghiera orfica, o di scongiuro: si prega Pan,
dio della paura, per non soccombervi – o Marx, dio della materia, per non
soffocarne. Per l’estro pittorico, colorato classico in “Medea”, “Edipo”, da arte povera nel “Vangelo”. Sin da “Accattone” che fa morire a Olevano
nei paesaggi rarefatti di Corot. Pittore in privato, elegiaco, intimista - di
se stesso. Lo dice pure Sciascia: “La storia, quando
è davvero quello che deve essere, consiste in un’elaborazione di films”. Anche
in tv, che non amava - il cinema è allegro, la tv piagnona - ha portato
freschezza, con Pound novantenne, per la comune ingenuità.
Pasolini è uomo di
cinema come Sergio Leone. Di più, è artista d’immagine. In pittura e al cinema.
Con le parole a volte, specie quelle polemiche. Ma in immagine è sempre felice: curioso,
imaginifico, partecipe. Anche nella misantropia terminale. Nel passato s’illuse
di far rivivere un mondo senza sensi di colpa - così leggeva la “trilogia”,
Boccaccio, Chaucer, Sherazade. Approssimandosi la fine, anche se non ne era al
corrente, finì per fare pornografia della morte. In bianco e nero, moralista, cattivo,
in “Teorema”. A colori, sfacciato, slabbrato, in “Petrolio”, in “Salò -Sade”. Di grammatica – il film - semplice: fa la parodia del nazismo,
della forza come castrazione, della degradazione dei giovani e del corpo, ma in
realtà ne fa l’elogio. Il poeta mite, beneducato, è violento. E gioca con la magia,
il numero quattro che ha preso da Zolla, il simbolo della croce. Per
l’assonanza Salò-salaud, da dannunziano modesto? Per un fascismo di
ritorno, che Calvino diceva stonato, sfocato, e Pasolini fa monumentale,
sacrale. Di turgori che solo si animano tra cuoio e misteri, vergogne non
dette. I riti celebrando con crudeltà, liberando la forza – le vittime fa bei
santi Sebastiani, mentre il fascismo era feroce, con i deboli.
Pasolini era irenico? “Salò-Sade” può ben
essere la solita trovata commerciale, sulla scia del successo del “Portiere di
notte”, dell’erotismo nell’abiezione. La celebrazione del corpo come visto
dalle beghine, e dai beghini, nell’infinito squallore del lager e nel
lordume. Pasolini non si può dire un beghino, anche se ha un forte senso di
colpa – forse il solo, nella cristianità tutta – e va compatito. Ma le
rappresentazioni di sadismo sono sadismo – Barthes, che tanto ha amato
Pasolini, “una vitalità disperata”, ha ragione, Sade è irrepresentabile.
Totalitaria è l’idea semplificata del
marchese, e di Pasolini. Che, se ce l’aveva, ha smarrito l’innocenza: non è
spiritoso e non è buono, è anzi incattivito, e la voce atteggia, non solo in
pubblico, per l’istinto del maestro di scuola più forte delle deprecazioni,
l’urgenza pedagogica a cui lo stesso bisogno d’ordine va ricondotto, esteta
della minuta violenza, il furtarello, l’improsatura, anche l’ipocrisia, piccolo
san Paolo, che del pretume è quintessenza, uno che voleva giudicare gli angeli,
nel mentre che declama il sacro e la tradizione. Vero sarà stato l’odio contro
tutto ciò che è italico, o l’Italia diventa, e di cui lui era espressione,
contro sé stesso cioè, Che tutte le tentava per imbruttirsi, in tv a “Carosello” con la sua vera voce, e
non per soldi, e a “Terza liceo”
di Biagi, per raccontarsi bugie edificanti coi coetanei. Un disadattato,
malgrado il didattismo.
Resta
in immagine. Malgrado le tante parole, che ha speso probabilmente più di ogni
altro – in quantità totale e per generi. Si direbbe il poeta incinto di sé
stesso. Grande tragedia avrebbe potuto farne, di quello che è e non è, con i
mezzi che ha. Traduttore di Eschilo superbo, la sua “Orestiade” è un’altra. E di “Edipo” grande filologo, oltre che pittore, non c’è altra
Grecia. O commedia: è Aristofane, l’“Eautontimorùmenos”? O Plauto, il
soldato vantone? Sembrava si divertisse, nelle marane coi pischelli e le
periferie, ma lì invece è in posa, sempre allo specchio. Si vede dalla foto in
giacca e cravatta sul campo di calcio, il tackle
perfetto secondo i canoni del “Calcio illustrato”,
coi ragazzini sporchi nella fanga. Mentre nel fotoservizio per “L’Espresso” è in maglietta e
calzoncini d’ordinanza, calzettoni, parastinchi, scapini lucidi coi tacchetti ancora
bianchi dalla scatola, i capelli ordinatamente imbrillantinati, il Muccinelli
de noantri, la repubblica delle lettere si vuole romanesca, il Mariolino Corso
perfetto. Imbalsamato nell’impegno, che è l’unica cosa che non sa, e lo rende
nervoso.
(continua)
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