giovedì 17 marzo 2022

Chi era Pasolini 10

Il cinema dà felicità, più dell’Ariosto quando si cantava a memoria. Grande invenzione mitica, che Pasolini ha amato e non demolito. Benché nutrito di visi tenuti con lo scotch, drogati, alcolizzati, sfioriti. E di promesse di lussuria in corpi sterili, perfino avvizziti - il diritto alla felicità genera infelicità. Per la forza del mito, una sorta di preghiera orfica, o di scongiuro: si prega Pan, dio della paura, per non soccombervi – o Marx, dio della materia, per non soffocarne. Per l’estro pittorico, colorato classico in “Medea”, “Edipo”, da arte povera nel “Vangelo”. Sin da “Accattone” che fa morire a Olevano nei paesaggi rarefatti di Corot. Pittore in privato, elegiaco, intimista - di se stesso. Lo dice pure Sciascia: “La storia, quando è davvero quello che deve essere, consiste in un’elaborazione di films”. Anche in tv, che non amava - il cinema è allegro, la tv piagnona - ha portato freschezza, con Pound novantenne, per la comune ingenuità.
Pasolini è uomo di cinema come Sergio Leone. Di più, è artista d’immagine. In pittura e al cinema. Con le parole a volte, specie quelle polemiche.  Ma in immagine è sempre felice: curioso, imaginifico, partecipe. Anche nella misantropia terminale. Nel passato s’illuse di far rivivere un mondo senza sensi di colpa - così leggeva la “trilogia”, Boccaccio, Chaucer, Sherazade. Approssimandosi la fine, anche se non ne era al corrente, finì per fare pornografia della morte. In bianco e nero, moralista, cattivo, in “Teorema”. A colori, sfacciato, slabbrato, in “Petrolio”, in “Salò -Sade”. Di grammatica – il film - semplice: fa la parodia del nazismo, della forza come castrazione, della degradazione dei giovani e del corpo, ma in realtà ne fa l’elogio. Il poeta mite, beneducato, è violento. E gioca con la magia, il numero quattro che ha preso da Zolla, il simbolo della croce. Per l’assonanza Salò-salaud, da dannunziano modesto? Per un fascismo di ritorno, che Calvino diceva stonato, sfocato, e Pasolini fa monumentale, sacrale. Di turgori che solo si animano tra cuoio e misteri, vergogne non dette. I riti celebrando con crudeltà, liberando la forza – le vittime fa bei santi Sebastiani, mentre il fascismo era feroce, con i deboli.
Pasolini era irenico? “Salò-Sade” può ben essere la solita trovata commerciale, sulla scia del successo del “Portiere di notte”, dell’erotismo nell’abiezione. La celebrazione del corpo come visto dalle beghine, e dai beghini, nell’infinito squallore del lager e nel lordume. Pasolini non si può dire un beghino, anche se ha un forte senso di colpa – forse il solo, nella cristianità tutta – e va compatito. Ma le rappresentazioni di sadismo sono sadismo – Barthes, che tanto ha amato Pasolini, “una vitalità disperata”, ha ragione, Sade è irrepresentabile.
Totalitaria è l’idea semplificata del marchese, e di Pasolini. Che, se ce l’aveva, ha smarrito l’innocenza: non è spiritoso e non è buono, è anzi incattivito, e la voce atteggia, non solo in pubblico, per l’istinto del maestro di scuola più forte delle deprecazioni, l’urgenza pedagogica a cui lo stesso bisogno d’ordine va ricondotto, esteta della minuta violenza, il furtarello, l’improsatura, anche l’ipocrisia, piccolo san Paolo, che del pretume è quintessenza, uno che voleva giudicare gli angeli, nel mentre che declama il sacro e la tradizione. Vero sarà stato l’odio contro tutto ciò che è italico, o l’Italia diventa, e di cui lui era espressione, contro sé stesso cioè, Che tutte le tentava per imbruttirsi, in tv a “Carosello” con la sua vera voce, e non per soldi, e a “Terza liceo” di Biagi, per raccontarsi bugie edificanti coi coetanei. Un disadattato, malgrado il didattismo.
Resta in immagine. Malgrado le tante parole, che ha speso probabilmente più di ogni altro – in quantità totale e per generi. Si direbbe il poeta incinto di sé stesso. Grande tragedia avrebbe potuto farne, di quello che è e non è, con i mezzi che ha. Traduttore di Eschilo superbo, la sua “Orestiade” è un’altra. E di “Edipo” grande filologo, oltre che pittore, non c’è altra Grecia.  O commedia: è Aristofane, l’“Eautontimorùmenos”? O Plauto, il soldato vantone? Sembrava si divertisse, nelle marane coi pischelli e le periferie, ma lì invece è in posa, sempre allo specchio. Si vede dalla foto in giacca e cravatta sul campo di calcio, il tackle perfetto secondo i canoni del “Calcio illustrato
”, coi ragazzini sporchi nella fanga. Mentre nel fotoservizio per L’Espresso” è in maglietta e calzoncini d’ordinanza, calzettoni, parastinchi, scapini lucidi coi tacchetti ancora bianchi dalla scatola, i capelli ordinatamente imbrillantinati, il Muccinelli de noantri, la repubblica delle lettere si vuole romanesca, il Mariolino Corso perfetto. Imbalsamato nell’impegno, che è l’unica cosa che non sa, e lo rende nervoso.

(continua)

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