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giovedì 3 marzo 2022

Il mondo com'è (441)

astolfo

Dodge vs. Ford – Nel 1916 Ford aveva accumulato un surplus in conto capitale di 60 milioni di dollari. Benché avesse a più riprese ridotto il prezzo della sua Model T, e praticamente raddoppiato i salari dei lavoratori nell’impianto, a Detroit – il vecchio Fort Pontchartrain fondato nel 1770 da Antoine Laumet de la Mothe Cadillac, guascone e soldato di ventura. Il surplus del 1916 si propose allora di spendere in nuovi investimenti, per una fabbrica più grande, in grado di produrre più automobili in minor tempo, da vendere a prezzi ancora più scontati, e di creare molti nuovi posti di lavoro. I fratelli Dodge, John Francis e Horace Elgin, soci di minoranza col 10 per cento della compagnia, secondi soci di fatto dopo Ford, contestarono il piano, e infine denunciarono Ford in tribunale. L’accusa era di sperperare i soldi degli azionisti per rendersi popolare. E vinsero: il giudice sancì che l’unico fine dell’impresa è il profitto, e quindi utilizzare i capitali dell’azienda per altri scopi, per quanto nobili, era derubarne i soci.
Nel dibattimento, Ford sostenne che scopo di un’impresa è “fare il maggior bene possibile, in ogni contesto, e incidentalmente fare soldi”. Il 7 febbraio 1919 la Corte Suprema del Michigan stabilì il principio esclusivo del profitto degli azionisti e ingiunse a Ford di pagare subito 19,3 milioni di dollari ai soci come dividendi. Con questa motivazione: “Una società d’affari è organizzata e gestita primariamente per il profitto degli azionisti. I poteri dei dirigenti vanno utilizzati a questo fine. La discrezionalità dei dirigenti deve essere esercitata nella scelta dei mezzi per raggiungere quello scopo, e non si estende a un cambiamento dello scopo in sé, alla riduzione dei profitti, o alla non-distribuzione di profitti tra gli azionisti al fine di devolverli ad altri scopi”.
Ford, che sei anni dopo susciterà l’ammirazione del futuro scrittore Céline, in visita nella sua fabbrica in veste di medico funzionario della futura Organizzazione Mondiale della Sanità, era già noto per posizioni sociali molto avanzate. E per l’antisemitismo. Re per un ventennio dell’automobile. Tanto da diventare nel 1932 il bersaglio di Upton Sinclair, già suo fervido ammiratore, nel libello “The Flivver King”, il re del macinino. E di deus del “Mondo nuovo”, il best-seller di Huxley sul futuro prossimo, dove il tempo si calcola A.F. e P.F, prima e dopo Ford, l’invocazione è “Ford!”, “Nostro Ford!”, “Grazie a Ford!” (talvolta “nostro Freud”) l’esclamazione “Oh, Ford!”, “Ford, quanto lo odio!”, “Ford, quanto mi piace!”, l’inno è al Macinino, il diminutivo della Model T, la festa è il Ford’s Day, il segno della Croce il segno della T, l’esortazione “Aiutati che Ford ti aiuta”, la storia “chiacchiera” (bunk), come Ford l’aveva detta, Sua Forderia sta per Sua Signoria, “fordiano” per cristiano”, e si giura toscanamente con “Ford Macinino”. Chaplin non lo nomina, ma è a Ford che gli spettatori penseranno nel 1936 all’uscita di “Tempi moderni”.
Aveva adottato per primo gli studi di Frederick Winslow Taylor sulla gestione scientifica dell’impresa, e in particolare sulla razionalizzazione del lavoro in fabbrica - la teoria dei “tempi e metodi”. Riducendo nell’estate del 1913 da un mese all’altro le ore di lavoro necessarie per fabbricare uno chassis da 12,5 a 1,33. E per recuperare gli operai, che non gradirono il nuovo sistema e se ne andavano, aveva raddoppiato la paga giornaliera, da un minimo di 5 (poi elevato a 6) fino a 20 dollari, e ridotto la giornata lavorativa da dieci a nove, e poi a otto, ore. Misure che il “New York Times” definì “gravi perturbazioni”, e il “Wall Street Journal” “errori economici grossolani, se non un delitto”. Ulteriore incentivo, Ford decise che la sua fabbrica fosse aperta a chiunque volesse lavorare, compresi i portatori di handicap, gli ex detenuti, le donne – non molte (“il loro lavoro è la famiglia”), ma proporzionalmente più di ogni altra fabbrica e a paghe più alte.
E per chi aveva problemi, giuridici, finanziari, affettivi, creò un Dipartimento sociologico, con unità composte da un ispettore (infermiere e\o legista), un autista e un interprete, che operavano a domicilio. Il Dipartimento Sociologico dispose fino a 150 di queste squadre. Gli ispettori erano particolarmente attenti alle abitazioni e all’igiene. I ritmi di produzione s’ingigantirono. Anche perché la giornata di otto ore consentì tre turni di lavoro e la massima utilizzazione degli impianti, e i costi si abbassarono. In sei-sette mesi il fordismo si era imposto. Dilagò quando Ford tagliò i prezzi, facendo dell’automobile un prodotto popolare – chi non poteva permettersela sapeva che c’era “una Ford nel suo futuro”. Il prezzo originario del Modello T, 825 dollari, erta stato dimezzato nell’ottobre 1914 a 440 dollari, e nell’agosto 916 ridotto a 345 dollari.
Henry Ford era un uomo riflessivo, perfino segreto, ma audace, sempre pronto a rischiare. Amante dell’ordine e della rivoluzione, della tradizione e dell’innovazione, generoso ed egoista, individualista e populista, pacifista e patriota, antirazzista e antisemita, produttivista e ambientalista, miscredente e massone, igienista (niente fumo, niente alcol), frugale. Nel 1926 Detroit fu scossa da un’ondata di razzismo contro i neri. Ford rispose assumendone in un colpo cinquemila, che poi portò a diecimila, e polemicamente diede loro tutta una fabbrica da gestire, per mostrare che sapevano lavorare. Ma fu di un antisemitismo feroce, al quale non è stata trovata spiegazione. Se non nella paura che aveva di banchieri e gente di finanza - o nelle sue origini di irlandese protestante (o nelle faide cui poteva portarlo la sua pratica massonica).
Aveva un settimanale, “The Dearborn Independent”, di cui imponeva l’abbonamento ai clienti. Di diffusione nazionale quindi, anche se spesso i concessionari si assumevano loro la spesa dell’abbonamento, lasciando i pacchi non scartati del settimanale ai topi. Il primo numero era uscito nel mezzo del processo Dodge, l’11 gennaio 1919, con un programma libertario: no alle concentrazioni, alla grande banca, al capitalismo assenteista, nazionalizzazione dei telefoni e delle ferrovie, sostegno al presidente Wilson e alla Lega delle Nazioni in un momento di isolazionismo rampante, un piano casa, lotta all’alcol, femminismo.  Ma dal 22 maggio 1920, per 91 numeri, il settimanale dovette attaccare gli ebrei e, come espressione della perfidia ebraica, il bolscevismo, le gonne corte, il gold standard, gli affitti alti, New York, il jazz. Il segretario privato di Ford, Ernest Liebold, pubblicò seriosamente “I Protocolli di Sion”, il libello sulla congiura semita per prendere il controllo del mondo, di cui già si era dimostrato che era un falso, e una serie di libri, “The International Jew” che riproducevano gli articoli del “Dearborn Independent”. La campagna cessò, su ordine di Ford, a metà gennaio 1920.


Lucia Anna Joyce – La figlia amatissima di Joyce, finita in manicomio, per quasi cinquant’anni, vittima evidente di un conflitto madre-figlia, tenuta ai margini della storia e della critica joyciana (il Joyce Museum di Trieste le dedica una didascalia, imprecisa), si rivaluta da qualche tempo come artista dotata, per il disegno e il balletto, e ispiratrice di vasti passaggi di “Finnegans Wake”, se non dell’intera opera. Era stata a scuola, e scriveva, in italiano, e a Parigi e Londra, dove visse da adulta, con la famiglia e con Harriett Weawer, padroneggiava ugualmente il francese e l’inglese. Finora è stata presente, marginalmente, al meglio (Natalia Aspesi) come “l’ennesima donna il cui talento, all’ ombra di un uomo, si è persa nella follia: come Zelda Fitzgerald, come Vivien Eliot, come Sylvia Plath”, un punto interrogativo. 

Vari episodi di stranezze, almeno per come sono state raccontate al biografo di Joyce Ellmann dal fratello Giorgio e dal nipote Stephen, figlio di Giorgio, molto prevenuti, culminarono nel ricovero definitivo di Lucia il giorno del cinquantesimo compleanno del padre, che amava festeggiarlo con solennità. Il 2 febbraio 1932 – a seguito evidentemente di una lite, l’ennesima, ma questo Ellmann non lo dice - Lucia scagliò una sedia contro la madre. Il fratello la fece ricoverare in “sanatorio” (manicomio). Aveva venticinque anni e vi resterà fino alla morte, di 75 anni, a Northampton nel 1982, dopo aver cambiato due o tre “sanatori”. Con brevi intervalli nei primi anni, a iniziativa del padre, che la portò a fare esaminare da vari luminari per mezza Europa, compreso Jung – la tenne in osservazione per alcune settimane e la dichiarò ingovernabile.
Lucia Anna era nata a Trieste, all’Ospedale Civico, nella corsia dei poveri. James Joyce stentava a guadagnarsi la vita come insegnante alla Berlitz e in lezioni private. Conviveva con Nora, giovane cameriera conosciuta a Dublino, che non aveva voluto sposare, e dalla quale aveva già avuto un figlio, Giorgio. Era il 26 luglio del 1907: Lucia fu dalla nascita una figlia non amata dalla madre, che durante la gravidanza e dopo continuò ad allattare il primogenito Giorgio. I Joyce vivranno a lungo in alloggi modesti. Lucia crescerà col fratello, praticamente nello stesso letto, “come due porcellini in una stalla”, è stato scritto da una frequentatrice dei Joyce, la madre non volendo separarsi la notte dal padre. “Lucia ha avuto molte storie d’amore, anche col fratello”, scriverà una sua tarda amica, Hélène Vanel, maestra di ballo. 
Nel settembre 1913 venne iscritta alla Scuola Parini, vicino alla Barriera Vecchia, che frequentò per due anni. Quando i Joyce ritornarono a Trieste nel 1919, frequentò per un anno una scuola femminile evangelica in via S. Giorgio. L’italiano, lingua con la quale corrispondeva col padre, preferirà sempre al francese e all’inglese. Richard Ellmann, il biografo Di Joyce, di parte, lavorando d’intesa con Giorgio e Stephen, ostili a Lucia, annota che “le stranezze di comportamento” di Lucia emersero nel 1929, quando il fratello Giorgio si fidanzò con Helen Kastor Fleischman. Prima “ai ricevimenti era allegra e loquace”, scrive il biografo autorizzato, “e talvolta imitava Charlie Chaplin con i pantaloni cadenti e il bastoncino”. Charlot e Napoleone erano i suoi personaggi preferiti, ai quali aveva dedicato ai diciassette anni un articolo che una rivista belga, “Le Disque Vert”, aveva pubblicato, con una breve nota di Valéry Larbaud. Aveva studiato piano per tre anni, a Zurigo e Trieste, canto a Parigi e Salisburgo, disegno a Parigi, alla Académie Julian. A Parigi soprattutto aveva studiato danza – “con un impegno che eguagliava quello paterno”, deve dire Ellmann, “aveva studiato sei ore al giorno, dal 1926 circa al 1929”.
I primi anni di vita di Lucia, fra Trieste e Zurigo, furono segnati dall’instabilità: numerosi i traslochi, frequenti i trasferimenti da un istituto scolastico a un altro (a Zurigo durante la guerra deve ricominciare daccapo a scuola, in tedesco, a Parigi nel 1920 deve ricominciare col francese), con continui cambiamenti di ambienti, amici e lingua. A Zurigo cominciò a studiare danza, secondo i metodi del ginevrino Institut Jacques-Dalcroze. Nel 1920 la famiglia si trasferì a Parigi e nel 1922 Lucia riprese la danza alla scuola di Raymond 
Duncan, fratello di Isadora, un personaggio, pacifista, vegetariano, capelli lunghi sulle spalle, sandali ai piedi, tunica. Poi con madame Egorova – Liubov Nikolaievna, ex Balletti Russi. Seguitò con Jean-Borlin (svedese), Madika (ungherese), e con vari maestri: Lois Hutton e Hélène Vanel (ritmo e colore); Margaret Morris (danza moderna), oltre a Raymond Duncan. “Come danzatrice”, ammette Ellmann, “Lucia, alta, snella e aggraziata, aveva raggiunto uno stile assai personale”. Ha sicuramente preso parte a un film di Renoir, “La piccola fiammiferaia”.

Varie esibizioni sue sono state registrate. Alla Comédie des Champs-Elysées in tre riprese: il 20 novembre 1926 nel “Ballet Faunesque” di Lois Hutton, il 19 febbraio 1927 in “Vignes sauvages”, il 18 febbraio 1928 in “Le Pont d’or”, un’operetta buffa musicata da Émile Fernandez. Con la stessa compagnia danzò anche a Bruxelles. Al Vieux Colombier aveva partecipato il 9 aprile 1928 al balletto “Prétresse  Primitive”. L’ultima esibizione, il 28 maggio 1929, al Bal Bullier, fu un trionfo: fu classificata seconda, ma James scrisse agli amici che la sala era impazzita per lei (citando da un giornale, vero o inventato che fosse: “Un giorno il nome di James Joyce verrà ricordato solo in quanto padre di un’incredibile danzatrice”). Spopolò, se è vero quello che il padre scrisse, in abito da lei disegnato e in una coreografia da sirena - una delle foto che lo testimoniano e ora vagano per i social è stata ritrovata tra le carte di Samuel Beckett, sessant’anni dopo.
A Parigi avrebbe avuto una cotta per Beckett, allora giovane e bello, che frequentava casa per conversare col padre (non spesso, Beckett si alzava al più presto dopopranzo) – Beckett lo avrebbe confidato a Peggy Guggenheim, sua compagna per un breve periodo nel 1937, subito dopo l’internamento di Lucia. Wikipedia dice che “lo stretto rapporto fra Beckett, Joyce e la sua famiglia si raffredda quando respinge la figlia di Joyce, Lucia, che soffriva di schizofrenia”, ma la cosa non è attestata in nessun luogo. Di Lucia dopo l’internamento il poco loquace Beckett ha invece scritto a un corrispondente: “Non è pazza, ha solo accumulato troppa tristezza”.
Altre infatuazioni la sua unica biografa, Carol Loeb Shloss, studiosa di letteratura angloamericana (nota per gli studi su Flannery O’Connor), le attribuisce per Alexander Calder, per
 un Émile Fernandez, “poeta surrealista” (in realtà il musicista di “Le pont d’or), per l’insegnante di russo di Joyce, Alexander Ponisovsky, con cui si sarebbe fidanzata, prima che lui le preferisse la ricca Hazel Guggenheim, sorella di Peggy, e per una donna, Lyrsine Moschlos (si vede in una foto online della National Portrait Gallery), lesbica, assistente di Sylvia Beach, della libreria Shakespeare&Company a Parigi, l’editrice coraggiosa dell’“Ulisse”.
Più che ai flirt, Lucia teneva alla sua attività di disegnatrice (vari suoi schizzi furono utilizzati dal padre per le sue pubblicazioni) e alla passione per la danza. Ai vent’anni aveva anche abbozzato un romanzo, in italiano. Morto Joyce nel 1941, nessuno più la cercherà: 
gli zii Joyce, con i quali aveva avuto lunga confidenza, la madre, il fratello, il nipote Stephen, erede dei diritti. Seppe della morte del padre dai giornali. Gli studiosi di Joyce la trascurano anche loro volentieri, pur valutando solitamente con perspicuità il rapporto del padre con la madre, la ex cameriera d’albergo – che Joyce non volle mai sposare, malgrado le tante e insistenti pressioni familiari.
Il biografo di Joyce, Ellmann, si limita a elencare le stranezze di Lucia e i ricoveri – lui senza speciale infamia, tratta Lucia come ogni altro: ha lavorato con gli eredi, Giorgio e il figlio Stephen, e ne riflette i limiti (“si comunicò la morte del padre a Lucia, che non volle crederci”, eccetera).
 Stephen Joyce, l’erede dei diritti, persona invisa a tutti i cultori della materia, figlio di Giorgio e della sua prima ricca e anziana moglie Helen Kastor Fleischiman, in un congresso a Venezia nel 1988 ha annunciato con soddisfazione di aver distrutto tutte le lettere di Lucia in suo possesso e di aver convinto Beckett a fare lo stesso, per evitare “che occhietti rapaci e rapaci ditine se ne impossessino”. Distrutto – o forse solo occultato (le carte joyciane si cominciano solo ora a esplorare senza censure, morto Stephen e scaduti i diritti) – con tutte le carte di Lucia anche il romanzo abbozzato ai vent’anni.

astolfo@antiit.eu

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