La guerra è sempre un macello
La guerra è sempre la stessa – un rituale? Per prove ed errori: casuale,
superficiale, sbagliata. Questa è quella dei “Promessi sposi”, cap. XXVII:
Già
più d’una volta c’è occorso di far menzione della guerra che allora bolliva,
per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga, secondo di quel nome;
ma c’è occorso sempre in momenti di gran fretta: sicché non abbiam mai potuto
darne più che un cenno alla sfuggita. Ora però, all’intelligenza del nostro
racconto si richiede proprio d’averne qualche notizia più particolare. Son cose
che chi conosce la storia le deve sapere; ma siccome, per un giusto sentimento
di noi medesimi, dobbiam supporre che quest’opera non possa esser letta se non
da ignoranti, non sarà male che ne diciamo qui quanto basti per infarinarne chi
n’avesse bisogno.
Abbiam
detto che, alla morte di quel duca, il primo chiamato, in linea di successione,
Carlo Gonzaga, capo d’un ramo cadetto trapiantato in Francia, dove possedeva i
ducati di Nevers e di Rhétel, era entrato al possesso di Mantova; e ora
aggiungiamo, del Monferrato: che la fretta appunto ce l’aveva fatto lasciar
nella penna. La corte di Madrid, che voleva a ogni patto (abbiam detto anche
questo) escludere da que’ due feudi il nuovo principe, e per escluderlo aveva
bisogno d’una ragione (perché le guerre fatte senza una ragione sarebbero
ingiuste), s’era dichiarata sostenitrice di quella che pretendevano avere, su
Mantova un altro Gonzaga, Ferrante, principe di Guastalla, sul Monferrato
Carlo Emanuele I, duca di Savoia, e Margherita Gonzaga, duchessa vedova di
Lorena. Don Gonzalo, ch’era della casa del gran capitano, e ne portava il
nome, e che aveva già fatto la guerra in Fiandra, voglioso oltremodo di
condurne una in Italia, era forse quello che faceva più fuoco, perché questa si
dichiarasse; e intanto, interpretando l’intenzioni e precorrendo gli ordini
della corte suddetta, aveva concluso col duca di Savoia un trattato d’invasione
e di divisione del Monferrato; e n’aveva poi ottenuta facilmente la
ratificazione dal conte duca, facendogli creder molto agevole l’acquisto di
Casale, ch’era il punto più difeso della parte pattuita al re di Spagna.
Protestava però, in nome di questo, di non volere occupar paese, se non a
titolo di deposito, fino alla sentenza dell’imperatore; il quale, in parte per
gli ufizi altrui, in parte per suoi propri motivi, aveva intanto negata
l’investitura al nuovo duca, e intimatogli che rilasciasse a lui in sequestro
gli stati controversi: lui poi, sentite le parti, li rimetterebbe a chi fosse
di dovere. Cosa alla quale il Nevers non s’era voluto piegare.
Aveva
anche lui amici d’importanza: il cardinale di Richelieu, i signori
veneziani, e il papa, ch’era, come abbiam detto, Urbano VIII. Ma il primo, impegnato allora nell’assedio
della Roccella e in una guerra con l’Inghilterra, attraversato dal partito
della regina madre, Maria de’ Medici, contraria, per certi suoi motivi, alla
casa di Nevers, non poteva dare che delle speranze. I veneziani non volevan
moversi, e nemmeno dichiararsi, se prima un esercito francese non fosse calato
in Italia; e, aiutando il duca sotto mano, come potevano, con la corte di
Madrid e col governatore di Milano stavano sulle proteste, sulle proposte,
sull’esortazioni, placide o minacciose, secondo i momenti. Il papa raccomandava
il Nevers agli amici, intercedeva in suo favore presso gli avversari, faceva
progetti d’accomodamento; di metter gente in campo non ne voleva saper nulla.
Così
i due alleati alle offese poterono, tanto più sicuramente, cominciar l’impresa
concertata. Il duca di Savoia era entrato, dalla sua parte, nel Monferrato; don
Gonzalo aveva messo, con gran voglia, l’assedio a Casale; ma non ci trovava
tutta quella soddisfazione che s’era immaginato: che non credeste che nella
guerra sia tutto rose. La corte non l’aiutava a seconda de’ suoi desidèri, anzi
gli lasciava mancare i mezzi più necessari; l’alleato l’aiutava troppo: voglio
dire che, dopo aver presa la sua porzione, andava spilluzzicando quella
assegnata al re di Spagna. Don Gonzalo se ne rodeva quanto mai si possa dire;
ma temendo, se faceva appena un po’ di rumore, che quel Carlo Emanuele, così
attivo ne’ maneggi e mobile ne’ trattati,
come prode nell’armi, si voltasse alla Francia, doveva chiudere un occhio,
mandarla giù, e stare zitto. L’assedio poi andava male, in lungo, ogni tanto
all’indietro, e per il contegno saldo, vigilante, risoluto degli assediati, e
per aver lui poca gente, e, al dire di qualche storico, per i molti spropositi
che faceva. Su questo noi lasciamo la verità a suo luogo, disposti anche,
quando la cosa fosse realmente così, a trovarla bellissima, se fu cagione che
in quell’impresa sia restato morto, smozzicato, storpiato qualche uomo di meno,
e, ceteris paribus, anche soltanto un po’ meno danneggiati i tegoli
di Casale. In questi frangenti ricevette la nuova della sedizione di Milano, e
ci accorse in persona.
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