Matricidio, Saba ci provò con l’esorcismo
Stefano
Coletta, il direttore di Rai 1 visto a Sanremo, all’ultima edizione del
festival, si laureò con una tesi su Saba e il matricidio, Cinquegrani presumibilmente
lo ha seguito - anche lui, come Coletta,
abbandonando subito dopo la filologia (fa il critico cinematografico). Entrambi
colpiti dai versi per una volta tonanti di Saba:
“Sempre,
come ritorni primavera,
di me
tu devi ricordarti. Io sono
il
matricida Oreste, e un sacro dono
porgo
ai mortali: la Tragedia austera”.
Romolo
Rossi, lo psichiatra genovese che per primo l’ha ipotizzata, la psicosi del matricidio,
(“Umberto Saba: Oreste ed Edipo”), le trova due riferimenti solidi. Uno è in “Bersaglio”,
uno dei sonetti della raccolta “Versi militari”, 1908, di Saba quasi
esordiente: “L’ossessione matricida, sintomo centrale della sua nevrosi, è bene
rappresentata nell’immagine materna che si staglia angosciosa di fronte al
mirino del suo fucile:
“…. Va
la temibile frustata
E una
sagoma cade…”.
L’altro
riferimento è la quartina famosa già citata, del 1924, sotto il titolo
“L’eroe”, uno dei componimenti della raccolta “Prigioni”. Saba, dunque, prigioniero
della sua fantasia matricida?
Saba ha
sempre avuto, anche in vecchiaia, il peso di avere turbato la vita nascendo, la
vita della madre in primo luogo:
“Or se
ti guardo un rimorso mi strazia
Per
quanta pace, nascendo, ho turbata”.
Di una
ragazza madre, abbandonata dal padre per motivi che non si sanno ma nella
memoria del bambino Berto sempre triste e arcigna – mentre è allegro e
ritornante il racconto della balia cui la madre l’ ha affidato per i primi tre
anni, Peppa Sabaz, da cui il poeta ha preso il nome d’arte.
Ma del mito
di Oreste che sempre lo avrebbe perseguitato non si trova traccia. Neppure nella
saggistica su Saba, con queste eccezioni – ce ne saranno altre ma si sono
perdute, insieme con gli studi sul poeta triestino, da tempo ormai desueti.
La
traccia viene collegata anche ai contemporanei di Saba, come fosse un tema storico,
ricorrente in un’epoca, a metà del Novecento. Del mito di Oreste Visconti
faceva poco dopo uno degli eventi motori de “La caduta degli dei”, per la parte
incesto. Ma “la
solitudine è la prima conquista di un uomo”, è ben un verso di Saba, il suo leitmotiv.
Giacomo
Debenedetti, che di Saba fu una sorta di patrono critico, oltre che amico
fraterno (paterno) e anfitrione nell’anno che Saba trascorse a Roma a fine
guerra, ed è anche il critico che prima e più di ogni altro fece uso della
psicoanalisi nella lettura, non dava alla cosa molto credito. Se non per un
aspetto, per un fatto anzi, di sua conoscenza, nel quale il matricidio si
sarebbe in qualche modo materializzato. Nei due saggi su Saba recuperati nella
raccolta “Italiani del Novecento” ne fa una questione di esorcismo, di passione
per il diabolico occulto.
La sensualità di
Saba Debenedetti dice, come tutti, “onesta e contenuta”. Per la madre ha risentimento,
ma più pena: “Tu pel fanci ullo eri l’infallibile,\ eri colei che non conosce
errore,\ l’umile tua parola nel suo cuore\ scolpivasi, così ch’ebbe indicibile\
angoscia, quando per la prima volta,\ non men d’ogni altra, la tua mente folta\
d’errori discoverse”. Quando “discoverse” il padre – il “mio povero padre ramingo\ cui malediva mia madre”
(“Mio padre è stato per me «l’assassino»,\ fino ai vent’anni che l’hop
conosciuto.\ Allora ho visto ch’egli era un bambino,\ e che il dono ch’io ho da
lui ho avuto”).
Ma a Saba imputa, nel
saggio “La sua Quinta Stagione”, un “connubio di sincerità impulsiva e di
segretezza che talora gli si leggeva anche in faccia”. Il tremendismo di
“Epigrafe”, la cerimonia greve di espiazione cui la breve ultima raccolta ci convoca,
è legato a un segreto, spiega: “Il segreto, che egli non poté confidarci da
vivo, trapela principalmente da ‘Vecchio e giovane’, l’ultima, forse, delle sue
maggiori poesie”. È un segreto che il critico conosce, e decide di dire: “La
poesia ‘Vecchio e giovane’ confessa, e teme di non essere riuscita a espiare,
un pericoloso, crudele, tentativo di esorcismo, per il quale Saba si valse di persona
che gli era cara”. Saba “era istintivamente un adepto delle pratiche
esorcistiche”. In qualche modo ne conosceva “i rituali e procedimenti esecutivi”.
Il matricidio ha dunque realizzato, provato a realizzare, sotto forma di esorcismo,
di diavoli da scacciare?
Il critico, che di
Saba ne sa più di ogni altro (nelle testimonianze sparse anche di suo figlio, Antonio
Debenedetti), non indulge al pettegolezzo. Ma, per quanto cauto, insiste: “Che
egli ammettesse volentieri di avere tanti rabbini dietro le spalle, tra i quali
ci sarà stato indubbiamente qualche rabbino miracoloso ed esorcista, questo può
ancora essere un indizio vago. Più probante è il fatto che al proprio incontro
con la psicanalisi abbia dato subito un’importanza decisiva” – la psicanalisi
viveva come un rituale esoterico. E ancora: “A descrivere le cose in maniera un
po’ allarmata, alla quale però egli steso indulgeva, il suo male di vivere, lo
stesso suo sviscerato e contraddetto amore di vivere, così ansioso che arrivava
a sospettarsi illecito al pari del suo amor dell’amore, gli si manifestavano
per incubi, coazioni, angosce, minacce, presenze e pensieri infestanti:
qualcosa di analogo, insomma, a un invasamento da spiriti maligni”. Più
preciso: “Che altro era stata, fin dagli inizi, la sua poesia? Quello che negli
altri poeti si chiama giustamente catarsi, in Saba meritava più propriamente il
nome di esorcismo”. Freud fu un Ersatz e un aiuto, a vedere più chiaro,
se possibile, in questi impulsi.
Alessandro
Cinquegrani, Umberto Saba. Io sono il matricida Oreste, Marsilio, pp.
253 € 22
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