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Chi era Pasolini 9
Le Madonne non piangono più, dice Pasolini,
e le lucciole sono sparite. Ripete Montale, le falene, le farfalle, i grilli -
dopo il troppo odio. Lucciole e grilli sono lasciti del
marchesino De Pisis, che fu poeta. Ma partono dal secentista Biagio Guaragna
Galluppo di Morano, barone figlio di baroni, sposato a una santippe “dal
femmineo latrar”, che col titolo “Alle lucciole” rifà “A una zanzara” del
Materdonna. Se non sono la luna di Alvaro, sparita e riapparsa, l’esercizio era
comune al tempo del realismo magico. “Chiudere
le scuole”, l’altra sua proposta, è invece Papini, 1914. Non vedere più la
Madonna, certo, può essere un problema.
Le lucciole di Pasolini
non sono scomparse nella notte. “No”, spiega il filosofo dell’immagine Didi-Huberman,
che dedica loro un intero libro, “le lucciole sono scomparse nell’accecante
bagliore dei «feroci» riflettori” della contemporaneità. E non sono scomparse
in realtà, sono il segno di un disagio. Di cui il filosofo conduce, con sicura
pedagogia, a scoprire connotazioni sorprendenti.
Le lucciole non erano
ignote al Novecento. Didi-Huberman ne scova la presenza in tanta letteratura
francese, e fin nella letteratura nipponica, nel non tradotto (in italiano) “La
tomba delle lucciole” di Akiyuki Nosaka, che le vede scendere dal cielo, “il
fuoco che cade goccia a goccia” della bomba A, e nella chimica del Nobel
Shimomuro, sopravvissuto a Nagasaki, nella bioluminescenza. La biochimica del
“sistema lucciole”, che ci riserva una prima sorpresa: “Mentre in alcune specie
animali la bioluminescenza serve ad attirare le prede o a difendersi dal
predatore…, nelle lucciole si tratta anzitutto di una parata sessuale”.
L’“articolo delle
lucciole” di Pasolini sul “Corriere della sera” dell’1 febbraio 1975 s’intitola
“Il vuoto del potere in Italia”, e tratta dell’Italia che vive nel fascismo,
anzi peggio che nel fascismo, eccetera, in un crescendo d’indignazione che
porta lo stesso poeta a interrogarsi su che demone lo ha invaso. Didi-Huberman
pone allora il quesito: “Perché Pasolini sbaglia così disperatamente e
radicalizza in questo modo la propria disperazione? Perché ha inventato per
noi la scomparsa delle lucciole? Perché la sua luce, il suo fulgore di
scrittore politico si sono così improvvisamente consumati, spenti, inariditi,
annichiliti da sé?” E si risponde: non sono scomparse, distrutte, le lucciole,
ma “qualcosa di essenziale nel desiderio di vedere – nel desiderio in generale,
e dunque nelle speranze politiche – di Pasolini”.
La ricerca il filosofo
sottotitola “Una politica delle sopravvivenze”. Sull’indignazione, la voglia di
apocalissi e non specificata palingenesi, che è sembrato soffocare alla fine il
poeta, confusi disagi trovano qui una profusa spiegazione. Didi-Huberman cita
Derrida, il saggio critico di trent’anni fa “Di un tono apocalittico adottato
di recente in filosofia”: “Ogni escatologia apocalittica si promette in nome
della luce, del veggente e della visione, e di una luce della luce, di una luce
più luminosa di tutte le luci che essa rende possibili”. Che non è possibile:
“Non ci potrebbe essere verità dell’apocalisse che non sia verità della
verità”, e anzi “verità della rivelazione piuttosto che verità rivelata”. Anche
se ineliminabile, e non colposa: “È ineliminabile perché nessuno può esaurire
le sur-determinazioni e le in-determinazioni degli stratagemmi apocalittici. E
soprattutto perché il motivo o la motivazione etico-politica di questi
stratagemmi non è mai riducibile a qualcosa di semplice”.
Meno “assolutorio”,
Didi-Huberman contrappone la “situazione oggettiva” di Walter Benjamin, al
quale si deve il piccolo messianesimo poi sbocciato in apocalissi, personale e
storica, negli anni 1933-1940, a quella di Pasolini a febbraio del 1975. Un
informato, approfondito, amorevole ritracciamento di Pasolini nei suoi gangli
segreti - le lucciole, e lo stesso Pasolini, hanno più attenzione, e forse
intelligenza, oltralpe che da noi, Didi-Huberman cita Bataille, Jean-Paul
Curnier, il fotografo Denis Roche, l’antropologo Lemonnier.
Il fatto è controverso,
la scomparsa cioè delle lucciole. Didi-Huberman le vedeva ogni sera, in
stagione, nel boschetto dei bambù di Villa Medici al Pincio a Roma, “nel cuore
urbano del potere centralizzato”, negli anni dal 1984 al 1986. Ancora nei primi
anni 1990 le ha riviste. Poi il boschetto fu tagliato, ma questa è un’altra
storia, contemporanea e non. Ciò a cui Didi_Huberman ci introduce, nell’opera
di Pasolini e nel Novecento, è la luce intermittente, che segna una
sopravvivenza-persistenza: le parole-lucciole, il sogno-lucciola, il
sapere-lucciola, il segnale nella notte. Un invito, si direbbe: il balenio, un
sorriso.
Didi-Huberman arriva a
Pasolini partendo da Dante: le lucciole sono la sola luce che Dante vede
all’Inferno, al canto XXVI. L’immagine del villano che la sera dal poggio
guarda le lucciole girovagare nella vallata gli serve per dire delle fiammelle
che vagano a luce alterna tra i “consiglieri fraudolenti”. A lungo però
dimenticate, queste lucciole, lo stesso Botticelli ebbe difficoltà a
riprodurle, nell’illustrazione della “Commedia”. Benjamin, che ne parla negli
appunti sparsi pubblicati come “Appendice a «Sul concetto di storia»”, dice
dell’immagine che balena che “s’appoggia (su) un verso di Dante”, ma non lo
cita. In Pasolini Didi-Huberman ritrova le lucciole la prima volta in una
lettera del poeta ventenne all’amico Franco Farolfi, in cui descrive una
scampagnata notturna fra il 31 gennaio e l’1 febbraio 1941 con altri amici,
dapprima al casino, nella carne triste, poi in collina, dove una rivelazione
avviene: “Una quantità immensa di lucciole”, in “boschetti di fuoco dentro
boschetti di cespugli”, gli fa desiderare “comitive di giovani ventenni che
ridono con le loro maschie voci innocenti”, incuranti del mondo intorno.
“L’1 febbraio 1975, cioè
giorno per giorno, o piuttosto notte per notte, trentaquattro anni dopo”, nota
Didi-Huberman, le lucciole del poeta sono spente. La scomparsa delle lucciole è
“la scomparsa delle sopravvivenze”, una sorta di fine della storia. Di più,
delle “condizioni antropologiche della sopravvivenza”, personale questa,
individuale, della speranza: Pasolini ha smarrito “in fine il gioco dialettico
dello sguardo e dell’immaginazione”. Che non è gioco naturalmente, è la forza
di vivere, la quale, smarrita, non lascia le cose come stanno ma apre una
voragine, un’assenza. Sia pure per la “visione apocalittica” che il poeta
coltivava. Che in lui non era gioco retorico.
Ma, poi, per le
lucciole il problema sono i pesticidi. In Giappone lo sanno e le coltivano,
liberandole nei giardini in albergo per la stagione. Fuoco al culo le direbbero
in Valtellina, fuoco morto nelle altre valli. Ma non solo per loro Pasolini è a lutto. Prima delle lucciole, che si dice pure delle puttane, ha pianto
l’aborto. La maggioranza dice “somma dei mediocri” sul “Corriere della sera”, il giornale della maggioranza, e il
buonsenso “autoassoggettamento degli imbecilli”. Eccetto che nel popolo, per
“la faccia umile e generosa della sua povertà”. Fare l’amore è “un atto politico”.
E “un atto di diserzione politica, di dimissione, quando diventa una mania
irresponsabile”. L’aborto “rafforza la comodità del coito eterosessuale”, va
prevenuto. Con tecniche “diverse”, dalla tv: “È folle pensare che un’«autorità»
compaia dal video reclamizzando «diverse» tecniche amatorie?” Una Maria
Antonietta dell’improsatura? Pasolini
sul “Corriere della sera” è un
nobile romano della Repubblica, plebeizzante. Un libertino terrorista, che di
tutto vuole un’altra cosa.
(continua)
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