Chi era Pasolini 12
Personaggio-mito lo dice Berardinelli, che
non ne apprezza la poesia né la prosa. Di umori forti. Iperletterato. Di “Petrolio” la
notte al Prenestino è la notte a Algeri di cui Gide nel “Diario” segna, tra i
“foglietti”, al 15 agosto 1914 – a guerra dunque in corso: “(Da dire dopo la
notte di Algeri, nelle Memorie):
quante volte la gioia amorosa”. È arcaista ai vent’anni, fra “Strapaese” e
Contini (la filologia): lingua, usi, tradizioni, terra. Poi civile alla Pound,
ma senza l’epica – in contemporanea con Allen Ginsberg, coetaneo: una poesia
fatalmente incitatoria. Pittorico mai, che era il suo genio. Come per un rinvio
costante, o un rifiuto. Con la psicosi stessa del rifiuto, lui che era
amatissimo – rifiuto da cui eccettuava i pochi, quelli del Pci, che sinceramente
lo praticavano.
Poeta sempre. Maestro e poeta. Da maestro, diplomato, fon datore e
anima dell’Academita de lenga furlan,. Pe ragazzi, il cugino Nico Naldini,
sedicenne, Tonuti, il grande amore della sua vita prima di Ninetto, quattordicenne.
Col coetaneo Cesare Bortotto. Si dirà Pasolini “uno dei cento poeti incerti”,
benché non di avanguardia, il polemista è elegiaco decadente. Quello che recita
la depressione, con arte per il successo. “Il poeta scrive per il successo”,
come dice il modesto Saba: “Ciò che il poeta canta sono le sue colpe. E le
canta per liberarsene, per confessarsi, per purificarsi. Se il pubblico gli
volta le spalle, le colpe gli ricadono addosso, più tormentose di prima”. È una
regola che sovrasta ogni altra, pena la scomparsa.
Ma
è “più una presenza critica che
l’autore di un’opera poetica” (Berardinelli). Poeta di immagini, al cinema, in
foto (la curava molto), in pittura. Non nella parola. Molti versi
scriveva, sempre di fretta, come appunti per futuri poemi. Scrive, in prosa e
in poesia, come sui giornali. Da giornalista, sempre al punto e ultimativo,
domani è un altro giorno. In immagine invece no: nei dipinti non si saprebbe,
non si mostrano, nei film sì: ha forti visioni, e in parte le trasmette.
Un giornalista d’immaginazione dunque fervida, s’immagina anche più di quanto
abbia reso, potuto o saputo rendere. Compreso il capitombolo finale, il rutto
contro tutto ciò che avrebbe voluto essere e non gli è stato concesso di essere.
Fin da quando fu cacciato dal partito e ostracizzato per atti impuri, fin da
subito cioè, dai vent’anni. Però sempre da maestro di scuola. Fino alla maledizione-santificazione
della forza bruta, che è bella, dell’uomo animale, di “Salò-Sade” e di
“Petrolio”. In una con la santificazione - editorial-culturale - del
“riflusso”. Per la voglia di essere o fare il maledetto a cui niente e nessuno
lo obbligava, ma à la page. San Sebastiano in estasi sotto i colpi.
Alla
lettura si propone Catone il Vecchio, censore severo della cosa pubblica,
cantore della ruralità, della frugalità, della modestia, mentre era giovane e
giovanile, atletico, e non si privava di nulla, anche se non dava confidenza.
Critico sociale efficace, e anche acuto, anche se bizzarramente (volutamente,
per fare scandalo?) passatista – magnificatore tra le tante di una realtà contadina
che lo aveva condannato e ostracizzato. Colonna del “Corriere della sera”, non
di un giornale di combattimento o di contestazione.
Le celebrazioni nei settimanali culturali e negli speciali giornalistici
sono bizzarramente uguali: un ricordo, di chi l’ha frequentato (ormai solo
Dacia Maraini) o solo incrociato, e due celebrazioni, di film pittorici, e della
musica che montava sui film, da violinista di poco talento da ragazzo, ma
appassionato. E nella prosa un maestro. Nel senso del maestro di scuola, come
voleva e aveva iniziato a professare, poi impedito dal noto scandalo. Da
maestro di scuola e da ricercatore, amante dell’arte dei classici, nonché della
filologia, subito riconosciuto da Contini. Da immoralista morale, con un senso
fortissimo del peccato, unico nella letteratura, non solo del Novecento.
(continua)
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