Vivere come disagio, la voglia di morire
È la raccolta che
il marito di Sylvia, il “poeta laureato” inglese Ted Hughes, pubblicò nel 1965,
due anni dopo il suicidio, segnandone la fama - la fama di poetessa, più che di
bella donna, innamorata, madre, giovane. Componimenti nervosi, febbrili, come “mitico
sprofondare nel silenzio dopo una concitata recita”. Scritti negli ultimi mesi di vita, anche due o tre al giorno.
Un succedersi di
immagini staccate. In versificazione classica per lo più, dal punto di vista tecnico,
più tradizionale. E forse per questo sorprendente: più originale. O più
drammatico?
I primi
componimenti sono idilliaci. Testi brevi, testimonianza di un disadattamento.
Di una vita come trascinata nel contesto urbano. “Pecorella nella nebbia” è uno
dei primi testi. Seguito da “Tulipani”, da “Papaveri in ottobre”, da memorie e
visioni disperse qua e là. Uno spaesamento che la giovane vissuta Sylvia tratta
(rappresenta) con maestria. Ma già ha introdotto la morte, con “Lady Lazarus”,
la lirica più famosa: “Morire\ è un’arte, come ogni altra cosa”). Il poemetto
della voglia di morte: “Non ho che trent’anni\, e come il gatto ho nove vite da
morire” è una promessa, una minaccia, a se stessa - “La prima volta successe
che avevo dieci anni.\ Fu un incidente.\ Ma la seconda volta ero decisa”.
L’immersione
prevale, in lunghi componimenti, di dialoghi a distanza, o a corto muso nel suo
vivere recluso, in ricordi, rimproveri, propositi, di terrificante annullamento,
rabbioso. Cominciando da “Morte&C.”, proseguendo con un cattivissimo,
insistito, “Lesbo” (un componimento che la riedizione paperback del 1999, sempre di Faber and Faber, omette....), e l’altro poemetto famoso, di nichilismo irridente, “Un
regalo di compleanno”.
L’edizione
americana del 1996 era introdotta da Robert Lowell, che la legge come una
poesia “personale, una confessione profondamente sentita”. In forma di “controllata
allucinazione, l’Autobiografia di una febbre”.
Sylvia Plath, Ariel
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