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La meglio borghesia
“Il progresso come
falso progresso” era il sottotitolo della prima edizione, Einaudi, subito dopo
la morte di Pasolini, titolo e sottotitolo da lui visionati e approvati. Una
raccolta, di testi pubblicati sul “Correre della sera” e sul “Mondo” nel 1975,
di estrema violenza alla rilettura, dopo quello che è successo: la Seconda
Repubblica, o Terza o Quarta, sotto gli occhi di tutti – compresa la mancata
verità sul suo assassinio. La sua “mutazione antropologica” dispiegata, non
lusinghiera – era quello che Pasolini voleva, contro la “mutazione
antropologica” del modesto benesse re dell’Italia operosa (fa male pensarlo coi
Di Pietro)?
La rilettura è
catastrofica. “Lettere luterane” sono una parte del volume. La prima parte è
“Gennariello”, appunti e testi sul “Mondo” come “discorso pedagogico”
indirizzato a un ragazzo napoletano, Gennariello per definizione, un prototipo.
Non edificanti. Nemmeno simpatici – “il napoletano” come Pasolini lo vede “è simpatico”.
Pasolini tornato maestro – scrive sotto una rubrica “La pedagogia” - e il
milanesissimo, cioè borghesissimo, settimanale milanese scrivono alla macchietta
del napoletano perché a Napoli “sono rimasti gli stessi di tutta la storia”. Una
città dove Pasolini si sente a casa. Perché? “Coi napoletani non ho ritegno
fisico perché essi, innocentemente, non ce l’hanno con me”. Una questione di
marchette? Sembra di sì: “Un giorno mi sono accorto che un napoletano, durante
un’effusione di affetto, mi stava sfilando il portafoglio: gliel’ho fatto
notare, e il nostro affetto è cresciuto”.
L’unica lezione
utile, fra le tante prediche contro gli oggetti e le abitudini del consumo, è
quella in cui si precisa la posizione sull’aborto: “Naturalmente contro
l’aborto, e a favore della sua legalizzazione”. Contro il vezzo allora – e
ancora oggi – di fare disinformazione, di un’opinione pubblica ridotta a scandalismo,
pettegolismo.
“La vita consiste
prima di tutto nell’imperterrito esercizio della ragione” è il tema del testo
preliminare, una sorta di prefazione, “I giovani infelici”. Con l’ottimo
proposito: “Meglio essere nemici del popolo che della realtà”. Specie in questo
momento (ma il momento non è sempre speciale?) in cui borghesi e proletari, “le
loro storie si sono unite: ed è la prima volta che ciò succede nella storia
dell’uomo”. Davvero? Peggio: “Tale unificazione è avvenuta sotto il segno della
civiltà dei consumi: dello «sviluppo»”. Un disastro. Difficile da credere oggi,
nell’Italia delle nuove povertà, della precarietà – in cui l’Italia e i paesi di
stazza e attività analoghe devono arricchire le catene di produzioni globali. Ma
Pasolini la pensava così.
La condanna è preceduta
da un’anamnesi dei giovani come massa di sciocchi: “quasi afasici”, se non per
“urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno”, che “non sanno
sorridere o ridere”, “sanno solo ghignare o sghignazzare”. Tutti tutti? No,
L’“enorme massa” è “tipica, ancora una volta!, dell’inerme Centro-Sud”. E c’era
già il terrorismo, a Milano. Giovanile. Il pedagogo vi accenna per i rapimenti
dei giudici Sossi e Di Gennaro: “I rapimenti dei magistrati e i pianti delle
madonne si assomigliano alla perfezione: anzi, sono in sostanza la stessa
cosa”.
Pasolini è
accreditato di estrema verginità intellettuale, e dell’avventatezza dell’eroe,
ma è sempre scrittore accorto, quasi millimetrico. Nel dosaggio (uso) dei
malumori. La scuola media dell’obbligo dice “un crimine”, mentre è – era ancora
nel 1975 – un’università, talmente era generosa, formativa, e presto infatti è
stata rimpianta, dopo che è stata dichiarata, come “Milano” voleva, “troppo
costosa”. Un’assurdità, tanto per meravigliare il borghese, non per combatterlo
– era l’interesse della “borghesia dominante” che in questo Pasolini ritorna a
ogni pagina, della borghesia vera.
Il polemista
appare sempre abile - Pasolini sarà stato mite, ma non umile, solo a metà evangelico. Di un giornalismo che si muoveva sulla scia e con gli
stessi equivoci dello scandalo Watergate americano e del relativo processo –
poi rimosso, dopo la demozione di Nixon. Ma si rilegge come l’intellettuale
furbo che accusa gli altri di esserlo. Pasolini non poteva credere che il “Corriere
della sera”, a Milano, volesse dare il potere al partito Comunista. “Ha
ragione” su tutto. Se non che fa l’apocalissi del nulla: del fatto che il
reddito pro capite è cresciuto – che è cresciuto modestamente, da “piccoli
borghesi” e non da grandi, questa la colpa. La “maggioranza silenziosa” che la
grande borghesia allora puntava – Milano ha sempre bisogno di nuovi sacrifici.
La “ragione” dell’abile
polemista era peraltro di facciata già all’epoca. A Moro, con l’“Io so” dei
precedenti “Scritti corsari”, aveva dato il pretesto di proclamare combattivo nello
stesso 1975: “Non ci processerete nelle piazze”. L’ultimo testo rimprovera a
Calvino di avere imputato il massacro delle due ragazze romane al Circeo a “una
parte della borghesia”, a “Roma”, ai “neofascisti”, e argomenta non si capisce
cosa, che la borghesia è meglio e peggio, che Roma è peggio e meglio, e che i fascisti (tutt’e tre i
massacratori del Circeo lo erano) sono fascisti e non lo sono. Un testo pubblicato
il 30 ottobre, il giorno prima del suo lurido assassinio. Borghese e borghesia
erano sue ossessioni, di un linguaggio già allora vieto, ma non per questo sono
meno confuse.
La cosa migliore è
la “Postilla in versi”: tre sonetti lievi da maestro di scuola, perfino
divertenti.
È la riedizione Garzanti,
che ha recuperato le opere di Pasolini, 2015, con una prefazione di Guido
Crainz.
Pier Paolo
Pasolini, Lettere luterane, “Corriere della sera”, p. 225 € 9,90
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