Era ieri che l’Africa si voleva regina
Sembra di essere nel vivo dell’Africa di cinquant’anni
fa. Anche per la pellicola, che dimostra tutti i suoi anni. Doveva essere un’anticipazione
di Wenders e “Buena vista Social Cub”, un documentario su un megaconcerto di
cantanti africani soul, ma è stato infine montato solo nel 1996, e riciclato
sull’“incontro del secolo” per il titolo dei pesi massimi, nella stessa Kinshasa,
dove si era tenuto il concerto.
Un’opera semplice, che suscita una serie di
forti impressioni. Si suda a Kinshasa, con la sensazione di mosche puntute anche
se non ce ne sono. Si risparmia sull’elettricità, e quindi sull’aria
condizionata. Il militare chiede sigarette. Con voce incerta, appesantito dal khat o dall’età. Non c’è dubbio che una
sigaretta non fa differenza con un milione, e che uccidere non ha un senso per
lui, non eccezionale. I militari improvvisano blocchi, buttando un tronco di
traverso, dicono bakhshish, lingua
franca, la bagasciscia dei portuali a Genova, e prendono qualsiasi cosa uno
voglia o non voglia dargli. Del generale Mobutu, il nuovo padre della patria,
si dice che tenga la prigione politica sotto lo stadio, dove si giocano le
partite di calcio, e si terrà la sfida del secolo. Gli sguardi sono velati. Non hanno più la madrepatria e il
re del Belgio, ma non si sono liberati. Astiosi, ladri, vendicativi,
tradizionalisti stantii, anche quando la tradizione non è inventata. Un modo d’essere
che non si sa quanto mediato dai coloni.
La città è ferma, nell’attesa di
Foreman-Alì, la sfida del secolo. “L’avvenire è degli africani”, il generale
assicura dai muri, e ai due africani più noti paga cinque milioni di dollari
ognuno, una somma importante, anche per lo Zaire, per strappare la boxe ai
bianchi. Che volentieri si arrendono, sono arrivati in folla. Soprattutto gli
scrittori Usa, se ne potrebbe fare un’accademia, Mailer in testa, esperti di
boxe, che tutti in vario modo s’ingegnano di entrare a corte da Mobutu, la
regalità, seppure africana, ha sempre il suo fascino. La prigione si fantastica
sotto lo stadio perché le urla dei tifosi coprano le torture. O che Mobutu vi
liberi tigri inferocite, perché no, il generale è di cultura classica. Classico
è lo sfruttamento africano degli africani, di una tribù contro le altre, del
meno nero contro il più nero, dei furbi, dei ricchi. Socialista è pure il
generale, sorridente a ogni canto, con occhi non cattivi, c’è eguaglianza
nell’abiezione.
L’idea
è di Ronnie King, che naviga in limousine,
bucaniere nero, impunito benché americano, a Kinshasa si può. King è compagno
di scuola di Cassius Clay. Era con lui quando gettò nel fiume Ohio la medaglia
d’oro di Roma, dopo essere stato respinto in un ristorante per bianchi. C’è James
Brown, “Say I am”, un nuovo rock, che dà potenza al recitativo, ci sono B.B.
King, Miriam Makeba, il rythm ‘n blues,
l’Africa. E un Foreman tranquillo, potente e virtuoso. A Città del Messico nel
‘68 non infierì sul sovietico Chepulis in finale, giustificandosi: “Mia madre
mi guarda in tv, non vuole che faccia male agli avversari”. Dice: “Africa is
the cradle of civilisation. Everybody is at home in Africa”. È un sillogismo,
quello per cui se è vera la conclusione è vera la premessa, che però è constatazione
grandiosa: si sta bene in Africa, culla della civiltà.
Cassius
Clay straparla, ha paura, dopo gli anni che si è fatto di carcere per aver
sfottuto i destrorsi Usa che l’avevano nel cuore, lui araldo dell’apartheid con Malcom X, i pugni di
Foreman sono pesanti. Era un dio greco all’Olimpiade di Roma, quando l’Italia
finì di perdere la guerra, avendo vinto quella dello sviluppo – il “balzo in
avanti” del veridico tigre Mao. Si materializzò quattro anni dopo per
costringere Sonny Liston, imbattuto col favore della mafia, al ritiro per un
misterioso dolore alla spalla. E per abbatterlo in un minuto alla rivincita
tredici mesi dopo in un borgo lontano dal pubblico, con un pugno che nessuno ha
visto. Ora incita i bambini a incitarlo: “Yé,
yé, buma yé”, spezzalo. “Muhammad Ali” imbolsito dalla pubblicità, la scena
è romana adesso della decadenza, roba da Colosseo, è il ragazzo che correva
dentro l’uragano senza bagnarsi. Sarà un imperatore decaduto, succedeva.
“Nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro”, disse da farfalla del ring, e un giorno gli storici diranno
che ha cambiato l’America, la nuova è cominciata con lui.
I
pareri sono divisi, tra i bianchi imparziali. C’è chi dice che nulla è meno africano
di quest’americanata, che il romanzo degli africani del Novecento dovrà attendere.
E che africano è in America peggio che negro: per i neri Usa l’Africa è ostile
più che lontana. L’Africa c’è, al solito, per niente.
Il
resto è noto. Foreman ha rinviato il match per un taglio alla palpebra sinistra.
Poi ha strapazzato Clay per cinque round, e s’è fatto mandare k.o.. Clay ha
inventato la più breve poesia del mondo, quando gli ex alunni di Harvard l’hanno
invitato, duemila laureati, e uno ha chiesto: “Dicci una poesia”. Breve
silenzio, e una risposta sintetica: - Me,we
– io, noi (falso l’orrido “Me?Whee!”
delle antologie, io?viva!)
Leon Gast, Quando
eravamo re, Nuovo Sacher, Roma
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