Romii e elleni
Libro
di viaggi nella Grecia del Nord (il titolo allude a una Grecia di mezzo,
prospiciente il golfo di Corinto), con alcune digressioni. Una, la più
brillante, Patrick Leigh Fermor fa sulle due anime del greco contemporaneo,
il romios e l’elleno, con una lunga tavola di
caratteristiche psicologiche appaiate per le due entità. Molte caratteristiche
dei romioi sono calabresi, se non tutte: realismo,
individualismo, ambizione privata, leguleismo, istinto, improvvisazione,
empirismo, provincialismo, retorica classica, sfiducia nella legge, saputismo,
incostanza, sensibilità eccessiva, collera improvvisa e violenta... Leigh
Fermor ne elenca 64, e tutte potrebbero essere molto meridionali. La vera
categoria potrebbe essere ionica, come opposta alla attica, o egea.
La filologica digressione è insomma una caricatura, purtroppo non voluta: con
64 caratteristiche, non ce ne è una. Le generalizzazioni delle psicologie
nazionali sono povera psicologia e povera scrittura, per quanto pettegola. Su
una caratteristica romia Leigh Fermor si dilunga, la stenachoria,
l’acedia latina, la malinconia immotivata: “Del tutto inatteso,
questo sovraccarico di energia e estroversione si inietta della più delicata
sensibilità, talvolta di suscettibilità, in cui uno scherzo o uno sgarbo, anche
immaginario, può rendere il mondo nero e precipitare la sua vittima nella
malinconia e il languore, quasi fino al mutismo. È compito degli amici
diagnosticare l’angoscia ed esorcizzarla; non sempre un compito facile. Questo
demone incombente, somigliante alla tribulatio et angustia dei
Salmi, i greci chiamano stenachoria”. Ma per fortuna, dice Leigh
Fermor, “il loro senso della commedia è anch'esso pronunciato”. Cosa, aggiunge,
“tanto più notevole in Grecia se pensiamo ai suoi vicini”, tra i quali mette il
Sud d’Italia. Che invece si esprime al meglio con l’ironia e lo scherzo. Tutto
quello di cui altri viaggiatori britannici si sono dilettati, per esempio in
Calabria Craufurd Tait Ramage, Edward Lear, Norman Douglas - anche se è vero
che l’“abito” meridionale, che si confeziona a Napoli e Palermo, si vuole
tragico (e che Ramage e Douglas erano scozzesi e non inglesi, e che Lear, inglese,
scelse di vivere in Italia).
In un breve ripensamento sulla sua scrittura da giramondo, Leigh Fermor rileva “una
morosa dilettazione a ricordare, quando tutto è finito, squallore e
tribolazione”. E fa questo esempio: “Il mantello calabrese di Gissing si poggia
momentaneamente sulla spalla”. Gissing che si ricorda solo per il suo
pellegrinaggio sulle rive dello Jonio. C’è un distinto anglocentrismo tra gli
scrittori inglesi di viaggi, che per questo sono tristi - non come Ramage, Lear
e Douglas, che invece riuscirono a divertirsi perfino in Calabria. Tra gli inglesi
alcuni però si distinguono per la curiosità, i migliori e più durevoli: Leigh
Fermor, Freya Stark (nata a Parigi e cresciuta in Italia, tra Asolo e Genova),
Robert Byron, Bruce Chatwin. Scrittori che nel secondo Novecento hanno saputo
rinnovare il culto dell’esotico – dell’estraneo.
Leigh
Fermor è grecofilo, al punto che non se ne immagina altra vita che in Grecia,
dove ha vissuto nel dopoguerra. E tuttavia i greci sono per lui “essi”. Non usa
“si dice" ma “i greci dicono”. Non “questo posto si chiama” ma “i greci
chiamano questo posto”. Non che ci sia un altro nome, inglese, turco, chissà,
per lo stesso posto, no. Semplicemente, quello non è posto di Leigh Fermor. Come
di un qualsiasi funzionario di colonia.
Notevole in questo libro, oltre alla riconosciuta capacità di Leigh Fermor di narrare
la filologia, che ne fa il successo, l’assenza di Venezia, se non per quattro
righe e mezza. Non ci fu Venezia nelle isole Ionie, né a Parga, Preveza o a
Lepanto, oltre che a Creta e nel Peloponneso, c'è solo Bisanzio, e i turchi. E
questo è sleale, oltre che impoverire il racconto: gli inglesi sono arrivati
tardi nelle isole ioniche, altrove non ci sono nemmeno arrivati, e ci hanno lasciato
poco, niente eccetto il cricket a Corfù. E Lord Byron, certo - che però vi morì
di polmonite (se non era malaria), mentre andava a caccia. Sapendo della
mancanza, però, il grecofilo riesce a gustare poco o niente di questo “Rumelia”,
e più che altro la buona volontà. I Sarakatzani non decollano, benché siano
soggetto succulento. Di Creta non ne parliamo: la seconda patria dello
scrittore: sembra un articolo di giornale, o un dépliant.
Freya
Stark in copertina nell’edizione americana ne lodava le riconosciute abilità: “C’è
qui tutto di nuovo: brillantezza, la profusione compiaciuta, l’esuberanza della
cultura e dell’informazione...”. Che era malignamente diminutivo, e finisce per
essere vero, perché Leigh Fermor qui manca, per inaspettate cesure, o censure, la
felicità della narrazione di “Mani” o di “Tempo di doni”. Non ci sono italiani
nemmeno nel Giardino degli eroi di Missolunghi, gli eroi dell'indipendenza
ellenica, che invece ci sono.
Patrick Leigh Fermor, Rumelia, Adelphi,
pp. 291 € 20
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