Giuseppe Leuzzi
Ripercorrendo l’infanzia in
Austria negli anni 1950, a Griffen in Carinzia, il Nobel Handke descrive così
la vita di paese: “In alcune famiglie capitava, per esempio, che l’unica
terrina della casa si usasse di notte come pitale e il giorno dopo per
impastare la farina”. La cosa suona inventata – Handke allora, quando ne ha
scritto, faceva lo sperimentalista, e quindi doveva épater le bourgeois,
scandalizzare. Ma vuole dire la povertà.
La Carinzia, una parte della
Carnia, mezzo milione di persone in parte di lingua slovena, è oggi ricca, 38
mila euro il pil pro capite - pari a quello della Lombardia, il più alto in
Italia. La povertà, anche l’abiezione, non preclude il benessere. Basta che
l’aria sia buona.
“La metamorfosi classica naturalizza,
il rito cristiano umanizza”, spiega Carlo Ossola in “Dopo la
gloria”. Bisognerebbe spiegarlo ai vescovi urtati dal “paganesimo”: ciò che è
pagano e ciò che non lo è – nelle processioni e nei riti in genere.
Sanzionabile forse, ma come ignoranza, superstizione, ma umana e cristiana.
In “Comizi d’amore”, il film
documentario sulle abitudini sessuali degli italiani, girato nel 1962 con la
mano sinistra mentre percorreva l’Italia alla ricerca dei luoghi dove
ambientare “Il Vangelo secondo Matteo”, Pasolini condanna “la furberia e l’arte
degli arrangiarsi”, che dice “l’unica filosofia italiana”. E salva il Sud, in
questi termini: “Il Sud è vecchio ma è intatto. Guai alle svergognate, guai ai
cornuti, guai a chi non sa ammazzare per onore. Sono leggi di gente povera, ma
reale”. Un complimento?
Pasolini ha scritto molto del
Sud, ma non che si ricordi. È del Sud come dei suoi viaggi, in Africa, in
India, di cui pure ha scritto: niente di interessante. Ma sul Sud non è solo:
la materia sfugge. Non per ostilità, da una parte o dall’altra, per incuria,
come di uno straccio da cucina. Il Sud è terra incognita, in casa, questo il
suo pregio, e da maneggiare senza cura, nessun obbligo.
Nessuno scriverebbe un libro o
monterebbe un film sul Friuli, avendoci fatto un giretto. Presumendo di saperlo
meglio dei friulani.
La mafia di tutti
Interrogandosi sugli ultimi delitti
“eccellenti”, che chiama “delitti politici”, Pasolini si dà nel 1972, sulla
rivista “il Mondo”, in dialogo con Enzo Siciliano, questa risposta:
“All’interrogativo che pongono, al mistero che mascherano, vi potrebbe essere
una risposta sola: la mafia, che via via, dalla Sicilia, in questi anni, ha
divorato le fibre segrete delle istituzioni repubblicane”.
La mafia era già più di un mito, era una favola.
“La decapitazione sistematica
e feroce di tutti i vertici istituzionali. Una terribile ecatombe di politici,
magistrati, funzionari di Polizia, ufficiali dei Carabinieri, giornalisti,
uomini della società civile”. Così Caselli sintetizzava sul “Corriere della
sera” il 6 gennaio 2020 “gli anni Settanta-Ottanta”, quando “i corleonesi di
Totò Riina puntavano ad una egemonia totalizzante”. E ne trae la conclusione
che la politica è infetta e lo Stato pure. O non semmai incapace di reagire?
Riina non era Mandrake, e anzi un uomo da poco. Tanti politici furono vittime
di Riina per quale motivo allora? Tanti magistrati e poliziotti – lo Stato –
pure: per quale motivo?
Caselli sa quello che tutti
sanno ma ha il vezzo della propaganda. Pro bono di chi? E poi,
vittime dei Riina furono anche donne, più qualche bambino. Con semplici
poliziotti e carabinieri, in gran numero.
Nel 2006, a ridosso della vittoria
dell’Italia al Mondiale di Germania, il settimanale progressista tedesco “Die
Zeit”, diretto dall’italo-tedesco Giovanni Di Lorenzo, pubblicava un
fantareportage “Mafia in Finale”, in cui ripresentava tutte le partite degli
Azzurri, Stati Uniti, Repubblica Ceca, Australia, Ucraina, Germania, e la
favoritissima Francia, battuta ai rigori, come la mano della mafia, ognuna con
una specialissima tecnica. Un pezzo di bravura, pubblicato sotto l’etichetta “Satira”.
Che suscitò molte reazioni negative, a partire dalla sintesi che ne propose la
“Gazzetta dello Sport”. Perché non si può ridere della mafia?
Se i Mattarella si devono difendere
Il presidente Mattarella è rispettato e
benvoluto per ogni aspetto. Il suo fratello maggiore Piersanti, di forte temperamento
politico e già personaggio di primo piano nella Democrazia Cristiana, presidente
della Regione Sicilia, è stato assassinato dalle bande corleonesi – Riina e i
suoi scherani hanno assassinato un centinaio di politici, magistrati, ufficiali
e militi della polizia e dei Carabinieri, oltre alle mafie concorrenti. Ma suo
padre Bernardo, ministro più volte nel decennio 1953-1963, alla Marina, ai
Trasporti, al Commercio, alle Poste, all’Agricoltura, ha avuto una lunga storia
di accuse di mafia, da oltre sessant’anni, in proprio e per conto della moglie,
Maria Buccellato, la madre del presidente – della famiglia della moglie. Contro
le quali lo stesso presidente è dovuto intervenire, più volte.
La prima volta, oltre cinquant’anni fa,
nel 1966, fu il padre Bernardo a doversi difendere contro le accuse di Danilo Dolci.
Le ultime hanno visto impegnato lo stesso presidente. Nel 2007 attore, insieme
con i nipoti, figli di Piersanti, contro Mediaset per la fiction “Il capo dei
capi”. Un terzo processo, in sede civile, contro Alfio Caruso e l’editore
Longanesi, per il libro “Da cosa nasce cosa”, si è concluso dopo un lungo iter,
che ha visto succedersi tre giudici, con la condanna contro il solo Caruso, al
cui carico va un indennizzo da 30 mila euro ai querelanti – sempre il presidente
e i nipoti.
Fra i processi come gossip, e all’interno
dei processi, sempre tre pentititi, Mannoia, Buscetta, e Di Carlo - questi
tuttora attivo, anche nel processo Caruso.
Caruso sostiene di essersi basato sui
rapporti della Commission parlamentare antimafia.
E se si smettesse di sostenere che tutto è
mafia? Forse, isolandoli e mettendoli nel mirino, i mafiosi finirebbero come ogni
altro criminale, in prigione. Comunque, si eviterebbe il ridicolo.
L’Irlanda dalla povertà alla ricchezza –
lo sviluppo vuole autonomia
La dinamica suora Erminia, irlandese, che
lavora in Vaticano e veste in borghese, sta organizzando per il suo ordine,
irlandese, un convengo mondiale a Roma per il quale impegna l’Ergife,
settecento stanze. Le piace chiacchierare e, benché impediti dalle buste del
supermercato, qualche battuta si scambia. “Sono cinquecento di sole direttrici
e superiore”. “Una potenza”. “Costa poco, ed è vicino al Vaticano”. “Una potenza
a Dublino, l’ordine”. “Le cose cambiano. C’era tanta religione e tanta povertà,
ora la religione è scomparsa, ma la gente sta bene”.
Religione contro sviluppo, allora? Bisogna
rimodulare gli studi in materia, Simmel, Sombart, Weber, Brentano, Pirenne, Tawney, lo stesso Marx, e anche Walter
Benjamin.
Ma, non detto, un altro quesito la suora
Erminia non volendo pone. E se l’Irlanda fosse rimasta nel Regno Unito nel 1921
(o nel 1949, quando s’è fatta Repubblica), sarebbe stata più o meno ricca un
secolo dopo? A giudicare dall’Irlanda del Nord, che è rimasta nel Regno Unito,
no.
Il successo dell’Irlanda è anche dovuto a poco.
Niente grandi capitali, grandi fabbriche, grtan di invenzioni, nemmeno prossimità
a grandi mercati. Solo un po’ di buon senso: l’Irlanda padroneggia l’inglese, e
con una fiscalità discreta ne ha fatto una miniera.
Aspromonte
“L’Aspromonte
è il suono del psi rovesciato (una lettera dell’alfabeto greco che ha forma di
tridente, n.d.r.), il simbolo di Poseidone che si perde nella marea montante
della Calabria”, Patrick Leigh Fermor, “Rumelia”.
Sono tornate le rondini, sono scomparse le
farfalle.
È sul primo numero de “L’Espresso”, 2
ottobre 1955. Con tanto di foto di un medico col toscano in bocca, il dottore
Emanuele Santillo, che ausculta un contadino. Ora nessuno in zona ricorda un
dottor Santillo. Né la faccia del contadino. Anche la didascalia sembra falsa:
“I medici della zona dell’Aspromonte possono svolgere la loro attività solo se
proteti dalla mafia. Spesso vengono costretti a curare banditi feriti”. Perché
la mafia non c’era. Non ancora.
Sullo stesso “Espresso” c’è una foto di una
pagina dedicata alla convulsa estate dell’“operazione Aspromonte” del questore
Marzano. Un funzionario in carriera poi finito male. Alla pagina collabora
Corrado Alvaro con un articolo spietato: “In verità, vi si gira un filmetto mediocre”.
“I nomi degli affiliati di banditismo li conoscono perfino i ragazzi”.
Alvaro, già minato dal tumore, perde il
rispetto umano e dice quello che tutti sanno. Anche noi preparavamo un giornale,
noi ragazzi. Uscì l’estate dopo, solo tre numeri, ma abbastanza densi. Si
chiamava “L’asino”. Con un articolo, il primo scritto in mezzo alle tante fantasie
poetiche e drammatiche (i tessitori di Lione è un tema che resta ancora vivo,
ma fu scritto a matita, sul diario di classe durante le interminabili lezioni,
e si legge poco) sull’estate del questore.
Se i Mattarella si devono difendere
Il ricordo permaneva delle camionette di
Polizia, con i Bren puntati sul tettuccio, che fecero carosello nella piazza a
mezzogiorno di domenica, tra i numerosi presenti, che poi furono spinti dai
militi col casco e il Fal spalle al muro. Aldo protestò, il papà dell’amico Mimmo,
ma si ebbe un manrovescio a gesto ampio, sonoro. Non cadde, solo si piegò, era basso
di statura, e si mise al muro con lentezza, ma il colpo fu forte, risuonò come
una bomba.
Dice anche Alvaro come si forma un
malvivente. In mille maniere. Quella che lui ricorda l’abbiamo vissuta tutti in
paese. “C’è un tale che si è dato al banditismo perché suo fratello, bandito
anche lui, fu ucciso dai carabinieri mentre dormiva in un suo rifugio, anziché
essere catturato vivo. Questi a sua volta si era dato alla macchia dopo avere
ucciso un sottufficiale da cui aveva ricevuto uno schiaffo durante un interrogatorio”.
I fatti non si svolsero così. In un certo
senso si svolsero anche peggio. Fu il fratello del morto a essere
schiaffeggiato dal sottufficiale che voleva informazione sul latitante. Che poi
si armò, uccise il sottufficiale, il maresciallo Sanginiti, e anche il presunto
informatore che l’aveva indirizzato al covo del latitante ucciso nel sonno - questi
aveva ucciso un amico per una questione di donne.
Ma Alvaro, da Roma, certamente ne sapeva
molto di più dei questori Marzano e complici, che stavano a Reggio come in
colonia.
Mezzo Aspromonte
è in armi con San Luca. Dove per caso è nato Corrado Alvaro, la gloria della
Calabria. E per questo si vuole centrale nell’economia della Montagna. Compreso
il santuario della Madonna di Polsi, il luogo di culto con più continuità in
Europa, che si è infeudato, a danno delle comunità che nei secoli ne hanno intrattenuto
il culto, Pedavoli-Paracorio, oggi Delianuova, Platì, Cittanova, Condofuri, Palmi,
Messina (“ganzirroti” e “faroti”). Anche perché, con una serie di manomissioni
delle carte demaniali, è riuscito novant’anni fa, nei primi anni 1930, ad
annettersi la titolarità di gran parte della Montagna.
Siamo tutti
fratelli ma bisogna dire le cose come stanno.
leuzzi@antiit.eu
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