Flannery in Georgia, bianca tra i neri
Mary Flannery O’Connor,
nel primo viaggio al Nord, a 18 anni, nel 1943, trovò strano nel Massachusetts
che nella classe di sua cugina ci fosse un nero, e nella metropolitana di
Manhattan voleva sedere tra due cugini, per non doversi trovare a contatto con
un nero. Diceva e scriveva “negro”, e non apprezzava James Baldwin. Lasciò cadere il Mary perché “sa si lavandaia irlandese”. A un
intervistatore disse: “Non mi sento capace di entrare nella mente di un negro”.
Su questi paletti Elie, commentatore e critico del giornale cattolico americano
“Commonweal”, ricercatore all’università gesuita di Georgetown, costruisce
un’immagine di Flannery O’Connor da “cancellare”. Se non lo fa antifrasticamente,
poiché la scrittrice esce da questo ritratto ancora più vivace di quanto si
sapeva.
Flannery O’Connor
era nata e ha vissuto in Georgia, dove i neri erano un altro mondo, ma li ha raccontati,
non più strambi dei suoi bianchi. A Baldwuin preferiva Cassius Clay (“si parla
troppo di odio”): “Cassius è troppo buono per i mussulmani” – “se Baldwin fosse
bianco nessuno lo sopporterebe”. Di questo e altro scriveva alla sua amica a
New York, Maryat Lee, commediografa, attivista dei diritti civili – una
corrispondenza quasi quotidiana. Ed è ben l’autrice, tra i tanti racconti e
saggi, di un “The Grotesque in Southern Fiction”. In Georgia è stata letta perfino
come il pendant bianco di Martin Luther King, il georgiano più famoso.
Paul Elie, How
Racist was Flannery O’Connor, “The New Yorker”, 15-22 giugno 2020, free
online
Nessun commento:
Posta un commento