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La tempesta di Serra, dolce
Una “Tempesta” da camera. In un angolo del
grande palcoscenico, sotto un cono di luce, in costumi diafani e toni sommessi,
la tragicommedia del potere Alessandro Serra risolve in funzione battesimale,
rigenerativa, dalla violenza e l’odio, nel perdono. Un adattamento dello stesso
Serra, con parole e tempi centrali tratti da Montaigne, riflessivi. Giusto il
monologo di Gonzalo, il consigliere onesto di Prospero, il duca mago di Milano
esiliato nell’isola, sulla docietà ideale – beni in comune, violenza esclusa, potere
disciolto, anche nel raporto con la natura.
Una “Tempesta” filosofica. Ma sulla funzione del
teatro, più che sui destini umani – “un inno al teatro fatto con il teatro” lo
dice Serra. Un mondo di pura fantasia, il teatro, eppure tanto reale, per la
fisicità della parola, del gesto, le luci, le scene, per la magia che accende illusioni
vive, pur tra le flebili voci. La “Tempesta” canonica del resto termina col
monologo di Prospero, per chiedere nient’altro che il pubblico liberi gli
attori.
Le voci Serra fa qui flebilissime, in diminuendo
– come la scena, in dimmering. Eccetto che per i cattivoni, Antonio
fratello di Prospero e il re di Napoli, e per la comparsate “napoletane” di Stefano e Trinculo, i marinai ubriaconi. E
per Calibano, eretto a contrasto gigantesco, scuro, tonitruante – una prova di
forza e di malleabilità di Jared McNeill. Con esibizione anche nuda dei tre, in
movimento e in gestualità inequivoche, come è di chi vuole “fare le scarpe”
all’altro – una primissima forse in teatro.
Una
“Tempesta” di Serra, regia, scene, luci, suoni, costumi. Cui lavora almeno dal
2015, in vari cantieri teatrali. Shakespeare prendendo a pretesto, da “editare”
(riscrivere, interpolare, adattare). Sul solco del precedente Shakespeare dello
stesso regista-autore, il “Macbettu” in sardo, “ispirato a Shakespeare”.
William Shakespeare, La
tempesta, Teatro Argentina Roma
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