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Le famiglie (non) fanno bene agli affari
I Benetton, sfavillante famiglia di quattro fratelli venuti dal nulla
che con le magliette hanno vestito il mondo, con la formula franchising
hanno creato un mercato mondiale, con Oliviero Toscani imbastito un linguaggio,
capace di accendere le fantasie di milioni e miliardi di ragazzi, si riducono, due
di loro ancora in vita, compreso il vulcanico riccioluto Luciano, ma gestiti
dal figlio e nipote Alessandro, a darsi un nome che riecheggia il numero dei
morti a Genova provocati dalla loro aziende Autostrade. Le famiglie fanno bene
agli affari? Sì e no.
Non è detto, e non è frequente, che la seconda o terza generazione abbia il senso della impresa del fondatore. Accade, è accaduto che il fondatore debba riprendersi ogni attività confidata ai figli, come Caprotti di Esselunga, o Del Vecchio di Luxottica-Exilor. Lo stesso è avvenuto nelle famiglie americane, Ford
per esempio. O francesi della siderurgia, dell’aeronautica, della grande
distribuzione. O in Germania con i Krupp, i Thyssen, i Quandt della Bmw, i
Porsche.
Si confonde il fondatore, una persona comunque d’ingegno, manuale,
tecnico, finanziario, commerciale, politico anche, e una finestra comunque
aperta, anzi spalancata, sul mondo com’è, ogni giorno di ogni anno, con i figli e
nipoti. Che difficilmente hanno le stesse qualità – nella storia non se ne
ricorda nessuno. Se non ne hanno le qualità, si dice allora, garantiscono comunque
la proprietà, e con la proprietà la certezza della continuità, di una gestione
comunque volenterosa. Ma non ci sono imprese sopravvissute al-i fondatore-i, se
non dotate di un buon management, per forza di cose esterno.
Il management naturalmente non è neppure esso esente da errori e catastrofi – i
generi Gardini e Carlo Sama hanno dissolto in pochi anni, seppure tra lampi e sorprese,
l’impero costruito in una vita da Serafino Ferruzzi, una sorta di Carlo V delle granaglie
(“sul mio impero non tramonta mai il sole”). La lista è lunga delle aziende di
successo che non sono sopravvissute al fondatore. Quasi tutte quelle del “bianco”,
le cucine e gli elettrodomestici da cucina per cui l’Italia fu imbattibile nei
mercati negli anni 1950-1970: Borghi (Ignis), Merloni etc.. Il tessile e abbigliamento,
dall’alta moda, che, certo, deve fare capo a uno stilista-artista, a una personalità
unica, i tantissimi stilisti che muoiono con se stessi, alla moda pronta, Rossi,
Marzotto, Rivetti, etc.. O le automobili, dei Lancia, Romeo, Innocenti, lo
stesso Ferrari.
L’unico asset che la famiglia apporta alla vita delle imprese è,
quando c’è, l’unità d’intenti. Nel capitale delle stesse: una delle forme di continuità
aziendale, nel senso che il capitale resta unito. Questo a volte può essere di
beneficio, le “scalate” speculative (dissolutive) restano difficili. Ma non sempre.
Un capitale aperto può favorire l’insorgenza di nuove e migliori energie, e
comunque una più ampia possibilità di finanziarsi – è più difficile che gli estranei
mettano i loro soldi nell’azienda di “qualcuno”, in un’impresa padronale.
Si dice solitamente che la Fiat ha prosperato per oltre un secolo perché la famiglia Agnelli l’ha custodita. Questo è vero, nel senso che gli
Agnelli e i Nasi, i discendenti di Edoardo e Caterina (Aniceta) Agnelli, i
figli del fondatore, il senatore Giovanni, votano insieme – l’albero genealogico
di una ventina d’anni fa, alla successione dell’Avvocato, registrava 75 membri
viventi. Ma il gruppo ha prosperato con i grandi manager: con Valletta era il
terzo o quarto grande fabbricante di automobili al mondo, dietro gli americani,
con Ghidella era il numero uno in Europa, davanti a Volkswagen, e poi con
Marchionne. Ha fatto bilanci fortunosi, e rischiato anche il fallimento con gli
Agnelli al comando. Soffrendo Valletta, nel dopoguerra, e Ghidella, allontanato
senza motivo.
Ma un motivo sempre c’è, quando si allontanano manager capaci: la gelosia.
Le famiglie arrivano a temere i manager, se capaci. E qui allora hanno un ruolo
infausto: lavorare per sé contro l’azienda – in definitiva anche contro di sé,
e questo dice tutto.
Senza addentrarsi nella storia, basti un caso recente – marginale ma
chiaro: quello della Juventus, la squadra di calcio, che gli Agnelli controllano. Ha prosperato con Boniperti, calciatore divenuto manager, con molte
coppe e il Mondiale del 1982 finché l’Avvocato, ombroso, non l’ha prepensionato,
e un periodo oscuro è seguito. Con Umberto alla guida, il club è stato lasciato
a due manager, Giraudo e Moggi: altre coppe e il Mondiale del 2006. Finché i
due, sospettati di scalare il club, che avevano portato in Borsa, sono stati cacciati
con ignominia. Altro periodo oscuro. Poi Alberto Agnelli imbrocca Marotta
direttore sportivo, e vince e stravince. Ingelosito, licenzia Marotta, dopodiché spese folli, debiti, oltre un miliardo in tre anni, e figuracce.
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