L’economia della scarsità
Mancano molte materie prime, minerarie o agricole. O ci sono ma
non si riesce a consegnarle – trasportarle, immagazzinarle. Conseguentemente
mancano molti prodotti, dal pane e la pasta, almeno così pare, al latte in
polvere per le poppate dei bambini, i chips, per le automobili e i computer,
perché manca il silicio, etc. Le “catene di valore” sono diventate di colpo dei
colli di bottiglia, delle strozzature: catene troppo lunghe nelle quali a un
qualsiasi punto si determinano blocchi o interruzioni.
Una certa disorganizzazione dei mercati era scontata per effetto
del covid, dalla “casa-madre” del mondo, la Cina, ai mercati più minuti e remoti.
La guerra in Europa ha introdotto altre strozzature, sui prodotti energetici di
base, a uso più diffuso, petrolio e gas, di cui la Russia è grande esportatore,
per effetto delle sanzioni, sulle maggiori produzioni cerealicole, a cominciare
dal grano e dal mais, su quelle oleicole.
Ma non sono le sole scarsità. Queste determinate dalla pandemia o
dalla guerra. C’è carenza di medici - l’America, il paese più ricco, ne ha in
proporzione alla popolazione quanto un paese in via di sviluppo. Di tecnici, di
nuove specializzazioni. C’è carenza di formazione: la scuola è antiquata, o
semplicemente rifiutata. C’è carenza di domanda di lavoro: in tutte le economie
i posti vuoti sono centinaia di migliaia. Anche là dove gli indici di
disoccupazione e\o di povertà sono elevati.
Un mercato del lavoro senza domanda, e con l’offerta in eccesso si
può far risalire all’inverno demografico di molti paesi, soprattutto nell’ex
Occidente. Non sopperibile con l’immigrazione di massa. Anche perché c’è
carenza di offerta di lavoro anche tra gli immigrati. Dall’Africa per esempio.
E dove c’è abbondanza di povertà reale o censita come tale, per criteri
normativi, come in Europa e specie in Italia. Per una sorta di rifiuto del
lavoro, che oggi, a differenza degli anni 1960, non è una bandiera di protesta,
dei ceti abbienti, intellettuali, ma una sorta di condizione biologica. Si vede
nella diffusa richiesta di lavoro da remoto, senza cioè controllo, e di
riduzione drastica dell’orario, da cinque giorni a quattro, o a tre.
Non se ne trova spiegazione. L’unico approccio psicologico
prospetta una sorta di delusione planetaria, di delusione o sfiducia di fronte
all’effetto serra, la mobilità del lavoro, la crisi fiscale dello Stato. Ma in
contrasto con la tendenza crescente ai consumi – mai una civiltà dei consumi è
stata così sperperatrice: la scarsità non scoraggia i consumi, che continuano a
crescere. Con lo stesso approccio generico, si potrebbe dirla una crisi da
indigestione, da ingordigia.
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