giovedì 5 maggio 2022

Letture - 489

letterautore

Alcol(ismo) – È stato per buona parte del Novecento, e continua oggi, a essere il maggiore propellente delle lettere americane, di maschi e di femmine. Dopo la morfina e l’oppio del primo Ottocento. È come se poetare o scrivere in America avesse bisogno di additivi artificiali. “Mephisto” sul “Sole 24 Ore” limita la lista al solito Hemingway, con l’aggiunta di Bukowski. Ma la lista è lunga: Kerouac, Berlin, Bukowski, Pirsig, Scott Fitzgerald, Faulkner, Dorothy Parker, Truman Capote, Chandler, Hammett, Cheever, Tennessee Williams, Robert Lowell, per limitarsi ai più noti. Come già Poe, e Jack London. 
 
Conversazione
– Stendhal, Svevo, Saba, nota Giacomo Debenedetti (“Il romanzo del Novecento”, 449), erano o divennero “irresistibili conversatori” per uscire dal “deserto letterario” – dalla disattenzione, la mancanza di interlocutori sulle proprie opere. Stendhal “si sentiva giustamente un misconosciuto: ebbe crisi di malinconia con tentazioni suicide”. Nel 1833, undici anni dopo l’uscita, scriveva che “De l’amour” aveva venduto solo 17 copie. E così, “benché timido, si sforzò di rifarsi con successi di conversazione nei salotti letterari” – una forma di “compensazione, di rivincita dei fiaschi (così li chiamava lui, all’italiana) sia letterari che amorosi”. Svevo, afflitto dal silenzio per venti anni, “fu, o divenne, un irresistibile conversatore”: Saba “non cessava di meravigliarsi della sua facoltà di rendere interessanti anche gli argomenti più banali, di dare un avvincente ritmo e sostanza narrativa agli aneddoti più ovvi”. Saba pure era conversatore fluviale, oltre che arguto – anche in casa Debenedetti, come testimoniato da Antonio, lo scrittore figlio di Giacomo.
 
Intermittenze del cuore
– I ritorni occasionali di memorie, che Proust con la madeleine così battezza, Giacomo Debenedetti li trova ampiamente in Alfieri: “Nella ‘Vita’, Vittorio Alfieri racconta esattamente, con la sua scabra e attillata eleganza, come il sapore di certi confetti gli risusciti la figura dello zio che, a lui bambino, regalava quei confetti. Quella figura torna, anzi, proprio con quei particolari secondari ma unici che restituiscono alla persona la sua inconfondibile vita; qui, per esempio, le scarpe dalla punta quadrata che quello zio dell’Alfieri soleva portare, tanto che erano divenute uno dei suoi connotati specifici”.
Debenedetti ricorda che “Benedetto Croce era stato colpito da questo tratto proustiano avanti lettera dell’Alfieri e lo ricordava volentieri nelle sue conversazioni, specie con i lettori dell’Alfieri che fossero anche lettori di Proust” – qualche aficionado del ricordo si trova sempre, e poi il ricordo è ampio, non teme confronti.
 
Joyce-Freud
– Quanto l’“Ulisse”, il monologo interiore, deve a Freud fu questione dibattuta, già negli anni 1920, e poi nei 1930 – resta ancora anzi irrisolta, materia per ipotesi e deduzioni di studiosi e critici, in assenza di riferimenti concreti (una corposa parte del “Romanzo del Novecento” di Giacomo Debenedetti è dedicato alla questione, la sezione “Italo Svevo” dei “Quaderni del 1964-65”, un centinaio di fitte pagine – Debenedetti propende per il sì, non sa farsi ragione che Joyce non conoscesse Freud o non lo apprezzasse). Svevo, che con Joyce convisse buona parte delle esperienze triestine dello scrittore dublinese, era decisamente contro: Joyce non sapeva dio F rued, se non per sentito dire, e non lo apprezzava. In una conferenza su Joyce tenuta a Milano ai primi di marzo del 1927 (ripresa nei “Saggi e pagine sparse”, la raccolta di Umbro Apollonio del 1954, che più non si è ripresa), è perentorio. Premette di non saper “stabilire il posto che nel mondo delle lettere spetti all’opera del Joyce e (di) scoprire la sua relazione con quanto la precedette”, subito stabilisce, benché in base alla “buona memoria” e non al “senno critico”: “Posso cioè provare che il pensiero di Sigismondo Freud non giunse al Joyce in tempo per guidarlo alla concezione dell’opera sua”. Sa che molto depone in senso contrario, prima ancora dell’“Ulisse”: “Ne resterà stupito”, prosegue, “chi in Stefano Dedalo scoprirà tanti elementi che sembrerebbero addirittura suggeriti dalla scienza psicanalitica: il narcisismo,…. quella a madre adorata che si converte in spettro persecutore, quel padre disprezzato ed evitato, quel fratello dimenticato come se fosse un ombrello, e infine quella eterna lotta in lui tra coscienza e subcoscienza”. Non soltanto: “C’è di più ancora. Non è preso dalla psicoanalisi quel pensiero dei protagonisti che ci viene comunicato all’istante stesso in cui si forma, sregolato, in una mente sottratta ad ogni controllo?” No, questo procedimento, Joyce stesso lo dice, è preso dal “vecchio Edoardo Dujardin che l’aveva applicato trent’anni prima”. Ma sul punto è irremovibile: “In quanto al resto sono io il buon testimonio: nel 1915, quando il Joyce ci abbandonò, ignorava del tutto la psicoanalisi. Egli, poi, in allora era ancora troppo debole nella pratica della lingua tedesca e poteva avvicinarne qualche poeta ma non degli scienziati. Ma allora tutti i suoi lavori compreso l’‘Ulisse” erano già nati”.
Che Freud avesse letto Dujardin? “Les Lauriers sont coupés”, 1886, col suo prolungato monologo, fu un libro famoso – Freud aveva lasciato Parigi già da un anno, ma poteva ben leggere il francese. La querelle sul freudismo di Joyce è curiosa – Debenedetti si perde in congetture per cercare il nesso.
E se Freud, come Joyce, o Svevo nel suo piccolo, forse parte dell’epoca – almeno in parte sicuramente sì, Freud non è un fiore nel deserto.
Svevo, comunque, è tassativo, non ha finito: “Da Trieste egli si recò a Zurigo (1915), la seconda città capitale della psicoanalisi. Senza dubbio egli colà conobbe la nuova scienza e c’è ragione a credere che per qualche tempo più o meno vi aderì. Ma io però mai ebbi la soddisfazione di conoscerlo psicoanalista. L’avevo lasciato ignorante di psicoanalisi, lo ritrovai nel diciannove in piena ribellione alla stessa, una di quella sue fiere ribellione in cui scuote da sé quello che impaccia il suo pensiero. Mi disse: ‘Psicoanalisi. Ma se ne abbiamo bisogno, teniamoci ala confessione’. Restai a bocca aperta. Era la ribellione del cattolico alla quale il miscredente aggiungeva una grande asprezza”.
Nel 1915 Zurigo poteva essere “la seconda città della psicoanalisi”, ma già ben distanziata da Freud.
 
Madeleine
- “un biscotto panciuto e friabile”, Giacomo Debenedetti, “Romanzo del Novecento” 373. Non memorabile, se non in quanto suscita memorie.
 
Roma – È città moderna di non luoghi”. Furio Colombo, visitando a casa all’Eur, il pomeriggio della notte fatale, è rimasto colpito dalla totale mancanza di carattere del quartiere. “Sopra il citofono della palazzina in via Eufrate, all’Eur, c’è scritto «Dr. P. Pasolini». È una strana casa, uno strano luogo per vivere. Guardo davanti e vedo, sopra quella targhetta, la palazzina confortevole, senza stile e senza gusto, che è il condominio dell’Eur, il quartiere residenziale più ambito di Roma. Volto le spalle alla palazzina, e oltre la strada vedo quel vuoto strano e angoscioso che circonda Roma. Un vuoto che non è né città né campagna…”. L’Eur non è il quartiere più ambito di Roma. Ma ha germogliato una forte espansione verso il mare, Fiumicino e Ostia. Roma così, la città più caratterizzata, anche nei sobborghi “pasoliniani”, dietro forse solo a Napoli, si è riempita di “non luoghi”: tutta la città che si è formata nel dopoguerra a ridosso dell’Eu, in direzione del mare, Fiumicino-Ostia. Eur compreso: L’architettura novecentista degli anni di Mussolini, che pure ha costruito quartieri con l’anima, alla Garbatella, a piazza Bologna, a Monteverde Nuovo, ha realizzato all’Eur un “non luogo” inscalfibile. Lo steso carattere ha mantenuto la città sviluppandosi dall’Eur al mare: Infernetto, Torrino, Mostacciano, Spianaceto, Casalpalocco.  
 
Svevo – Era e resta un outsider. Restò ignorato per molti anni, questo si sa. Non si dice invece che scrisse sempre, prima di diventare industriale e non dopo. Finì impiegato di banca ai diciotto anni. Per diciotto anni, fino ai 37, ma perché l’azienda del padre era fallita. Contemporaneamente scriveva: i primi racconti pubblicati su “L’Indipendente”, il giornale filosocialista cui collaborava come “vice”, col nome di Ettore Samigli, per le cronache letterarie e teatrali, “Una lotta” e “L’assassinio di via Belpoggio”, furono dei diciannove-vent’anni. “Una vita”, il romanzo, benché pubblicato da primario editore, Treves (cui Svevo l’aveva proposto col titolo “Un inetto”), ai trentun’anni, ebbe tre segnalazioni, una, sul “Corriere della sera”, per i buoni uffici dell’editore, milanese, e due sui quotidiani triestini, “L’indipendente” e “Il Piccolo della sera”, e non vendette nulla.  Aveva anche una profusa attività d commediografo – scrissi nei primi anni più drammi che racconti - ma nulla è stato mai messo in scena.

letterautore@antiit.eu

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