Letture - 492
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Sant’Antonio – In Congo Gide si
sente a un certo punto come sant’Antonio che “riflette sulla stupidità del catoblepa”
– di qualcuno dice: “La sua stupidità mi attira”. Sant’Antonio di Padova? Più
probabile sant’Antonio abate, detto anche (wikipedia) “sant’Antonio il Grande, sant’Antonio d'Egitto, sant’Antonio
del Fuoco, sant’Antonio del Deserto e sant’Antonio l'Anacoreta”, un abate ed
eremita egiziano, considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo
degli abati. Il catoblepa è un animale leggendario, “dal collo
lungo esile, la cui testa si trascina per terra”, per il Petit Robert – “una specie
di bufalo nero con una testa di porco” per wikipedia.
Croce – “Il più formidabile lettore e
intenditore di testi in Italia”, lo dice Carlo Dionisotti, “Geografia e storia
della letteratura”, “che sia apparso dal Settecento a oggi”.
Dante – Non è umanista, nella sintesi
fulminea Dionisotti, ib.: Petrarca lo è, alla corte avignonese che Dante
detesta.
Però Boccaccio,
che idolatra Dante, ha il gusto della cultura classica – l’ha mediato a Napoli,
ambiente saturo di cultura francese, che allora, prima di Petrarca, mediava i
classici anche per gli italiani.
Nel toscano-italiano “codificato” da
Bembo, “perfino Dante appare sboccato e popolare” – sempre Dionisotti, cit., 115.
Che ha anche la “cantilena” della “Commedia”, p. 236
Umberto Eco - Deve molto a Roland Barthes – senza saperlo? Si direbbe anzi tutto, meno
i romanzi. Al Barthes delle “Mitologie”, suo primo e fondamentale libro, 1957: i
diari minimi, le bustine di Minerva, Mike Bongiorno, le tesi di laurea –
leggere la quotidianeità, come tutti, sui giornali, le riviste, i cinegiornali
poi le tv, le chiacchiere. E agli “Elementi di semiologia” i trattati. Nel
taglio, e nello spirito. Eco non lo dice, ma lo spiega, in una presentazione di
Barthes nella rubrica Rai “Settimo giorno” del 1975, recuperata ora su youtube,
“Umberto Eco su Roland Barthes” (purtroppo tronca). Eco spiega che anche
Barthes voleva essere uno scrittore, benché professore esperto di semiologia. Scrittore
quando scriveva delle “mitologie” contemporanee, il Tour de France, il divismo,
Dior, etc., o di Ignazio di Loyola, di Sade, o del piacere della scrittura. E
che l’etichetta di semiologo, che lui temeva perché sa di tavole rotonde,
dibattiti, conferenze, i noia e fatica, gli si è attaccata “per caso”: Eco e i
suoi amici di “Marcatré” avevano deciso di tradurre un suo scritto di
semiologia, degli appunti di lezione. La forma in cui era scritto piacque molto
a Vittorini, che volle farne un volumetto della sua collana Nuovo Politecnico
Einaudi. Il successo di questi “Elementi di semiologia” si riverberò in
Francia, con la ripresa di quella modesta traccia universitaria in “trattato”,
e subito recepita in Inghilterra e nel mondo anglosassone. Questo lo ha
costretto a tralasciare la sua voglia di scrittura d’invenzione. Diventato
semiologo eminente, non ha più potuto, come invece Eco ha fatto, scrivere i
romanzi?
In effetti Barthes
arriva tardi agli studi accademici, a 35 anni. Dopo una lunga giovinezza passata
tra occupazioni avventizie, supplenze soprattutto, e collaborazioni a periodici
di varia lettura. E molto teatro, come promotore, organizzatore e anche attore.
La prima traduzione di Barthes in realtà è stata del 1960, dell’editore Lerici,
“Il grado zero della scrittura”, la scorribanda sula “scrittura” che si può in
effetti anche leggere come una preparazione al Romanzo.
Genere – In letteratura fa un bel giardino zoologico, nota Barthes nelle
“Mitologie” – “Romanzi e bambini” – a proposito di “Elle”, il settimanale femminile
(“un vero tesoro mitologico”): “A credere a ‘Elle’, che una volta ha riunito in
una sola fotografia settata romanziere, la donna di lettere costituisce una specie
zoologica notevole: partorisce come capita romanzi e bambini”.
Gide al Congo – “Gide leggeva un po’ di Bossuet discendendo il Congo. Questa postura riassume
abbastanza bene l’ideale dei nostri scrittori in vacanza, fotografati da ‘Le
Figaro’”. Roland Barthes nelle “Mitologie”, dove rappresenta
la realtà-mondo con gli articoli di giornale, al § “Lo scrittore in vacanza”,
trova che Gide, in viaggio avventuroso e faticoso come poteva esserlo
un secolo fa tra Congo e Africa Equatoriale, facendosi fotografare, in posa, sul
battello mentre legge Bossuet, esemplifica l’immagine borghese (“Le Figaro”)
dello scrittore in vacanza.
Non sapendo che
era un viaggio di otto mesi, in compagnia del giovane e bello Marc Allegret –
non sarà la malignità di Barthes per invidia?
Italia – Prima della Grande Guerra si discuteva fra gli storici se e fino a
quale segno la storia d’Italia si potesse dire unitaria. Croce era decisamente per
il no.
Italiano – Se il toscano fosse già
diventato lingua nazionale con la “Commedia” e il “Decameron”, non ci sarebbe
stato l’Umanesimo. Lo diventerà dopo, e da fuori Firenze: con la “codificazione”
introdotta da Bembo – Dionisotti, “Geografia e storia della letteratura”, 115.
Tardi, insiste
Dionisotti, il toscano diventa la lingua, malgrado una “colonizzazione toscana
attivissima nella vita economica e sociale, e la subitanea, vastissima,
diffusione della ‘Commedia’”
Kipling – Un Houdini, un trasformista.
Quando scriveva agli amici, “tendeva a modificare la calligrafia, imitando quella
della persona a cui si rivolgeva” – Ottavio Fatica, nell’introduzione alla raccolta
di racconti “I figli dello Zodiaco”. Imitava anche le voci e gli accenti, inquietando
gli amici per quel suo “inquietante dono camaleontico”. Lo stesso polimorfismo
dei racconti. Suscitando per questo l’interesse del primissimo critico, Henry
James: “Non c’è nulla, in questo universo vasto e terribile, che gli non possa
incarnare”. E in Italia di Renato Serra: “Si pone d’un colpo solo nei panni del
suo personaggio: poi comincia a scrivere tutte le cose intorno da quel preciso
punto di vista, di donna, di negro, di assassino, d’innamorato, di asceta, di
elefante, di pantera, di foca, di locomotiva, di bastimento”. E del giovanissimo
Cecchi.
Petrarca – “Petrarca non è un
laico”, è la cosa che più colpisce Dionisotti nella “Geografia e storia della
letteratura”, 61: il fondatore dell’Umanesimo italiano ed europeo, il maestro
della nuova poesia amorosa, è un chierico cappellano e canonico, e vive dei
proventi dei benefici ecclesiastici, con amanti e figli naturali.
Proust – Non sarà stato antisemita come lo
vuole (voleva?) Piperno. Ma sicuramente non “rivendica”, come dice Daria
Galateria alla fine della sua introduzione ai “75 fogli” ritrovati, “le certezze
del suo «sangue»”. Galateria lo dice trovando curiosa – “una figura comica” -
nel racconto ammiratissimo del secondo viaggio a Venezia, nell’ottobre del
1900, da solo, il passaggio sul Cristo benedicente di San Marco: “Nostro Signore
con l’aria effeminata, orientale e bizzarra, con il suo gesto trasformato in
una posa da grasso siriota equivoco”. Ma questi connotati li riferisce a
“esseri di razza diversa”.
C’è anche di peggio (di “più diverso”) al
primo sguardo entrando nella basilica, quando vede “il Dio che sappiamo essere il
nostro Dio, ma che sembra quasi un giullare pascià d’Oriente”.
Ma non c’è scrittore nel Novecento che
abbia pratica corrente, usuale, normale, alla chiesa, e ne usi i riferimenti (pratiche,
riti, formule) nella scrittura. Il bacio materno della buonanotte Proust dice
“ostia narcotica” nella stessa introduzione di Galateria.
Russia
– Non ne hanno buona opinione gli intellettuali russi del primo Ottocento,
sull’onda lunga della rivoluzione francese, e del liberalismo – le raccolte di
aforismi ne sono piene, sulla traccia di Winston Churchill quando finì il flirt
con Stalin: “La Russia è un rebus
avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma”.
“Qualcuno
saprebbe capire la Russia?”, è problema posto dal poeta e traduttore, dal tedesco,
dal francese, Afanasij Fet a metà Ottocento, mezzo tede sc per parte di madre,
educato in Estonia. Lo stesso che aveva già esposto, più argomentato, Fëdor Ivanovič Tjutčev, poeta di notevole rispetto e diplomatico: “La Russia non si può capire con la mente,\ né
la si misura col metro comune:\ la Russia è fatta a modo proprio,\ in essa si
può soltanto credere”. Peggio di tutti era stato il filosofo Piotr Čåadaev, “Lettere filosofiche”: “Abbiamo
qualcosa, nel nostro sangue, che respinge ogni vero progresso”. Ma era un
pensatore legato alla reazione cattolica in Francia, Bonald e Joseph De
Maistre.
“Siamo una lacuna nell’ordine intellettuale”,
diceva anche Čåadaev. E: “Solitari nel mondo, al mondo non abbiamo apportato
nulla, insegnato nulla, non abbiamo versato una sola idea nella massa delle idee
umane”. Questo non sarà più vero col secondo Ottocento e il primo Novecento, dal
terrorismo anarcoide al comunismo. Ma soprattutto in letteratura e arti – già Fet,
Tjutcev e Čåadaev avevano Griboedov, Puškin, Lermontov: poesia, narrazioni
musica, balletto, teatro, cinema, per un secolo saranno stati soprattutto
russi.
Dotstoevskij, che
aveva viaggiato, aveva il punto di vista giusto: “Agli occhi dell’Europa, la
Russia è come uno degli enigmi della Sfinge. Per l’Occidente è più facile
scoprire il moto perpetuo o l’elisir di lunga vita che sviscerare l’essenza
della russità, lo spirito russo, il suo carattere e la sua natura”.
Il poema di Puškin, “Ruslan e Ljudmila”,
di amori avventurosi, è ambientato tra Kiev e Dnipro. Su Kiev e i “kieviani”
(nella traduzione di Landolfi) alla fine dell’avventura “scenderà la pace”.
“Sommettiti alla forza russa!” è l’ordine di Ruslan, cui un genio malefico ha
sottratto l’amata Ljudmila. Ma eroico, saggio, modesto, in tutte le circostanze
del poema, è “l’onesto Finno” (sempre © Landolfi).
letterautore@antiit.eu
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