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Aforisma
–
“L’aforisma non coincide mai con la verità: o è una mezza verità o una verità e
mezzo”, Karl Kraus, aforista per eccellenza. È una forma del “mi si nota di più
se….”. Ma anche, certo, un’espressione non chiusa o paludata, e
un’interrogazione aperta – una “illuminazione”, una sfida al pensiero.
Aforista
principe però non è Kraus, aforista, di fatto lo è Nietzsche, filosofo. Da qui
il suo grande richiamo, di lettori (l’aforisma è comunque arguto, attrae), e di
critici o pensatori (l’aforisma è una sfida)? Se i Novecento ne è stato l’erede,
di Nietzsche. che ne resterà del Novecento?
Perché, applicandosi, si può estrarre tutto da Nietzsche - altrimenti
detto: Nietzsche è fertile. Un germoglio, una patata non ancora formata.
Capitalismo
–
Nasce dalla (con la) religione ebraico-cristiana: il sentimento religioso ne è
all’origine. Non dell’accumulo, ma sì dell’uguaglianza delle opportunità (la
democrazia moderna nasce in chiesa), e del futuro - dell’avvenire, del
progresso. Come pratica e come dottrina. In campo non strettamente economico
(finanziario), ma sociale e culturale. A prescindere dalla vecchia
analisi-polemica del giudaismo e del prestito a interesse.
La
borghesia e il capitalismo nel quadro sociale, del funzionamento della
collettività, come strutturazione e interesse-dovere produttivo e accrescitivo
sono storicamente definiti in ambito cristiano, dal cristianesimo – s’innestano
nell’uguaglianza, di origine e opportunità. Nella versione protestante
(calvinista), del thrift, del risparmio, dell’accumulazione, della
sociologia moderna. Di cui Max Weber si vuole il teorico per eccellenza, con “L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo” - “il più celebre trattato di
sociologia che sia mai stato scritto”, Francia Fukuyama, “un libro che ha
capovolto la tesi di Karl Marx” (Marx di cui Pasolini, “marxista” professo a
ogni passo, diceva per questo “inattendibile”). Ma in realtà di tutto il
cristianesimo, ben prima e anche dopo e all’infuori dello scisma protestante,
per la dottrina e la pratica della mobilità sociale, per la teorica della
“Auctoritas” sociale, per la Provvidenza, la concezione migliorativa della
storia, per l’impegno sociale che è stato pratica chiesastica ben prima che ne
fosse una dottrina, e la concezione “progressiva”, migliorativa, degli assetti –
della natura e gli assetti del lavoro, e della giusta mercede, come della proprietà
– lo stesso Weber, a leggerlo, fa soprattutto il caso del protestantesimo
luterano più vicino alle posizioni cattoliche.
Fede
e ragione
- “La fede non si può mettere tra parentesi, il dialogo tra le religioni non è
possibile”, scriveva nel 2008 l’ancora papa Benedetto XIV all’epistemologo
Marcello Pera, per un libro che poi si firmò a quattro mani, “Senza radici. Europa, relativismo,
cristianesimo, Islam”. Praticabile invece e auspicabile un dialogo fra culture che sottendono una
religione - in quest’ambito anche “una mutua correzione e un arricchimento
vicendevole sono possibili e necessari”. La fede è cultura ma è anche altro.
Opinione
pubblica –
È nata tra Sei e Settecento, si sa, dentro e attorno alle corti: l’opinione degli
allora oligarchi in veste di nobili di antico lignaggio o di abili imprenditori,
rinsaldata presto dei fogli a stampa, poi gazzette, che gli stessi oligarchi temevano
in vita. È nata senza dirselo, per una convergenza spontanea di modi di dire e
di forme di comunicazione. Si può dire svanita oggi, nella sua funzione
formativa se non politica, con la democratizzazione dell’informazione. Con
l’informazione, attiva oltre che passiva, portata in disponibilità a chiunque,
al netto di qualsiasi fondamento – formazione, esperienza, titoli o attività
pregresse. Non comprovabile, per un verso o per l’altro. Frantumata. Ininfluente
in sé, essendo subito sovrammessa o cancellata da miriadi di altri messaggi
social. Ma sì nell’insieme, come ondate sollevate da venti imponderabili. Non
misurabile, non prevedibile. E senza effetti, se non l’incertezza.
L’opinione
pubblica è (era) esercizio aristocratico: di chi sa, per privilegio o per
formazione, per impegno costante e critico – dialettico - alla conoscenza.
Pubblicità
–
Il massimo della pubblicità (whatsapp, twitter, instagram, wikileaks, videoregistrazioni),
comporta un obbligo di censura – di autocensura. E un impoverimento del
linguaggio. È un limite all’espressione e alla discussione. Le reti sociali, dalle
lezioni scolastiche elementari al dottorato, fra amici, conoscenti, appassionati,
la conferenza, la relazione, perfino la conversazione individuale se registrata,
o condivisa con un pubblico indeterminato, presente e conosciuto oppure assente
e lontanamente correlabile, comporta la museruola. Non c’è commento possibile,
cioè influente. Sono escluse le forme paradossali di esposizione, l’ironia, il
sarcasmo, lo scherzo, la battura comica, l’idiotismo.
Occorre,
avviene, si produce, la stessa afasia del politicamente corretto, già
acclarata. La civiltà dei diritti s’imbuca in un paradosso: comporta un disseccamento
del linguaggio, ridotto alla pura comunicazione, semplice, lineare, basilare.
Senza umori, senza spessore, limitata alla comunicazione d’ordine, meniale.
L’effetto
della “pubblicità” comunicativa è doppio: non solo impoverisce l’espressione
(obbliga a impoverire l’espressione), ma comporta una censura. Doppia: personale,
e della materia, dell’oggetto della comunicazione. Si prenda una lezione
universitaria che, in regime di lockdown e di insegnamento da remoto, oppure
per semplice comodità degli studenti, venga registrata e interpellabile su
podcast: obbliga a un linguaggio per quanto possibile ristretto alla pura
spiegazione del concetto - materiale, procedimento - in esame, e alla forma
comunicativa più elementare possibile, non essendoci compresenza o altra correlazione
con gli interlocutori. Ogni figura retorica bandita, seppure possa agevolare la
comprensione e la memoria dell’insegnamento. Perché ogni singola parola può
venire decontestualizzata e portarsi a prova di un delitto, sia pure solo
verbale o di opinione.
È lo scenario orwelliano
realizzato, di “184”, tanto noioso e tanto profetico – dove lo stesso basico Socing
si può pensare come social: la pubblicità come museruola. Con una
novità, non da marginale: non c’è autorità dittatoriale tradizionale (polizia, intercettazioni,
spie) che debba implementare la censura, la censura è nel “sistema” stesso della
pubblicità. Anche il linguaggio è la “neolingua” (newspeak) orwelliana. Un
linguaggio in cui sono ammesse solo parole con significato univoco e limitato,
senza sfumature. E, anche se non lo sappiamo, pensiamo il “bispensiero” (doublethink)
di “1984”: “L’unica forma di pensiero ammissibile è il bispensiero…” - nella ossessione
complottistica, di sospetti, accuse, ingiurie. E “la menzogna diventa verità e
passa alla storia”. Niente riflessione, niente confronti, niente critica. Ma,
soprattutto, tutto era già Socing: i documenti di ogni tipo, anche audiovisivi,
e libri, giornali, film vengono rifatti in continuazione per emendarli da quanto
non sia al momento in linea con Socing – in parallelo con lo sviluppo della
cosiddetta intelligenza artificiale: giornali, libri, poesie, romanzi vengono
scritti in automatico da macchine “parlascrivi”. E dappertutto sono presenti “buchi
della memoria”, tritarifiuti instancabili dei prodotti della mente.
Ma, di più, si pratica questa “pubblicità”
quasi obbligata con contentezza. Come esibizionisti cui piace denudarsi, per
quanto poco presentabili. E anche nell’illusione di un avanzamento nella
realizzazione del regno felice della pubblicità – della verità senza ombre né
segreti. Spontaneamente e anzi con entusiasmo, senza un partito che ne faccia
obbligo o una polizia. Nel nome della verità e anche della giustizia – l’età dei
diritti suppone di se stessa l’età della giustizia.
zeulig@antiit.eu
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