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Divorziare dalla Cina, è difficile
Decoupling è ora il mantra, e quasi la parola d’ordine, anche
per gli alfieri della globalizzazione, dei mercato aperti. Staccarsi cioè dalla
grande fabbrica del mondo che è la trent’anni la Cina – con altri apaesi asiatici,
Vietnam, India, ma il decoupling è riferito alla Cina. Non per ragioni di
convenienza, “produrre” a mezzo di produzioni cinesi è sempre conveniente. Ma
per una questione di politica generale, di equilibri.
Era inevitabile,
per almeno due motivi, che Trump aveva messo con la solita irruenza in chiaro. Produrre
in Cina significa disinvestire in patria e questo non ha senso economico – va bene
per gli affari, non va bene per l’economia: se profitta a qualcuno, non va bene
a nessuno – compresi, ma alla fine, gli stessi che “producono” in Cina. Dove,
questo il secondo motivo, un regime politico non liberale è al comando, le cui
scelte politiche non obbediscono alle logiche democratiche, del maggiore
benessere per tutti. Né alle consultazioni, ai compromessi, agli impegni
legali, ma a una politica del potere e quindi di potenza.
Il ragionamento
è semplice: la Cina ha dato molto agli imprenditori occidentali, e in parte
anche ai consumatori – la Cina è entrata nel mercato americano negli anni di Clinton
perché consentiva di fare la spesa anche ai poveri, con prodotti (abbigliamento,
calzature, prodotti per la casa) a prezzo minimo. Ma con un progetto, che non è
di essere per sempre la fabbrica del mondo, ma anche il padrone. Un progetto
comprensibile. Anche inevitabile. Ance giusto, non fosse per il regime
autoritario e di potere.
Se decupling sarà, non sarà però senza
danni. Ci saranno più investimenti in Europa e negli Stati Uniti. Ma molti
grandi gruppi (Volkswagen su tutti) potrebbero soffrirne, avendo nella Cina il
loro più grande mercato. Perché il decoupling
sarà ovviamente, di necessita, reciproco.
E comunqne non
si può fare a meno della Cina. Il mercato di gran lunga più grande e più in
espansione al mondo. Nonché fornitore, specie all’industria europea, delle
cosiddette “terre rare”, minerali sempre più essenziali alla transizione verso l’economa
verde. Stati Uniti e Canada si offrono di compartecipazione le loro risorse, ma non basterà.
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