mercoledì 15 giugno 2022

Divorziare dalla Cina, è difficile

Decoupling è ora il mantra, e quasi la parola d’ordine, anche per gli alfieri della globalizzazione, dei mercato aperti. Staccarsi cioè dalla grande fabbrica del mondo che è la trent’anni la Cina – con altri apaesi asiatici, Vietnam, India, ma il decoupling  è riferito alla Cina. Non per ragioni di convenienza, “produrre” a mezzo di produzioni cinesi è sempre conveniente. Ma per una questione di politica generale, di equilibri.
Era inevitabile, per almeno due motivi, che Trump aveva messo con la solita irruenza in chiaro. Produrre in Cina significa disinvestire in patria e questo non ha senso economico – va bene per gli affari, non va bene per l’economia: se profitta a qualcuno, non va bene a nessuno – compresi, ma alla fine, gli stessi che “producono” in Cina. Dove, questo il secondo motivo, un regime politico non liberale è al comando, le cui scelte politiche non obbediscono alle logiche democratiche, del maggiore benessere per tutti. Né alle consultazioni, ai compromessi, agli impegni legali, ma a una politica del potere e quindi di potenza.
Il ragionamento è semplice: la Cina ha dato molto agli imprenditori occidentali, e in parte anche ai consumatori – la Cina è entrata nel mercato americano negli anni di Clinton perché consentiva di fare la spesa anche ai poveri, con prodotti (abbigliamento, calzature, prodotti per la casa) a prezzo minimo. Ma con un progetto, che non è di essere per sempre la fabbrica del mondo, ma anche il padrone. Un progetto comprensibile. Anche inevitabile. Ance giusto, non fosse per il regime autoritario e di potere.
Se decupling sarà, non sarà però senza danni. Ci saranno più investimenti in Europa e negli Stati Uniti. Ma molti grandi gruppi (Volkswagen su tutti) potrebbero soffrirne, avendo nella Cina il loro più grande mercato. Perché il decoupling sarà ovviamente, di necessita, reciproco.
E comunqne non si può fare a meno della Cina. Il mercato di gran lunga più grande e più in espansione al mondo. Nonché fornitore, specie all’industria europea, delle cosiddette “terre rare”, minerali sempre più essenziali alla transizione verso l’economa verde. Stati Uniti e Canada si offrono di compartecipazione le loro risorse, ma non basterà.
 

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