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sabato 18 giugno 2022

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (495)

Giuseppe Leuzzi

Pizzo, pazzo, pezzo, pozzo, puzzo
Declinabile e ubiqua sarà nata
La violenza da un suono impuro.
Dire dare, è il linguaggio
Che si fa legge - messaggio.
 
“Pesante fardello dello snob settentrionale\ è il vecchio spleen di Onegin”, il personaggio di Puškin, nei primi versi del poeta russo Osip Mandel’stam. L’oneupmanship come snobismo, perché no. Una forma di forza autonoma, convinta.
 
Quattro impiegati della società che gestisce il centro commerciale Euroma 2 pretendevano il “pizzo” dalle aziende che chiedevano in affitto i locali del centro. Denunciati, sono stati arrestati: è semplice. Si faccia una denuncia per il pizzo a Bacoli o a Gioia Tauro, non succede niente – niente non proprio: il negozio verrà bruciato, o la macchina distrutta.
 
È curioso che l’America, paese di minatori, trascuri il giacimento del Sud. L’ha spillato in “Via col vento” e l’ha richiuso. New Orleans è ricchissima, e non dei ricordini per turisti: i santi e il vudù, le matriarche, la cucina, i padroni bianchi e i servi neri che si danno del tu, e la musica cajun, non c’è solo il jazz e il rock.
Il Sud non fa più cronaca in America, impegnata com’è in #metoo, Black Lives Matter e lgbtqia+, e forse è giusto così – è meglio non “fare cronaca”?   
 
La persistenza del tribalismo
Ceccarelli segnala, sull’altro “Venerdì di Repubblica”, la ricorrenza del “cerchio magico”, personale, amichevole, di fiducia, quale organo decisionale della politica da alcuni anni: di Salvini ora come già di Bossi, di Berlusconi (cerchi variabili, solitamente al femminile – “non mi fanno le scarpe”), di Bersani, il “Tortello magico”, di Renzi, il “Giglio magico”, di  Virginia Raggi, il “Raggio magico”. Insistendo sul lato “magico” della cosa: come se l’amicizia bastasse e supplisse all’esperienza dei vecchi uffici di segreteria o direzioni politiche. Ma il dato più cararatterizzante è il tribalismo: nella tradizione del partito, il leader della Lega Salvini decide (accumula errori) consultandosi con un gruppo ristretto di collaboratori, tutti lombardi - il “cerchio magico” è connotato regionalmente, come paese o tribù. Le “magie” dei leghisti e di Berlusconi sono lombarde (Berlusconi scende la penisola, fino a Napoli, perfino in Calabria, per andare a letto, per un desiderio di esotismo), di Bersani sono state emiliane, di Renzi fiorentine, di Raggi romane.
 
Nel cuore del leghismo, a Milano, convivenza difficile, anzi botte, incendi, distruzioni, nelle residenze occupate da rom bosniaci, serbi, romeni. Che le cronache cittadine sono in imbarazzo a raccontare – non si può dire che i rom, forzosamente sedentarizzati, sono disordinati, caciaroni, sporchi, e anche violenti, non molto riflessivi, non secondo le norme accreditate di civile convivenza:
senza pensieri. Molto connotati – anche quando fanno finta di volersi sedentarizzare e magari accettano un lavoro. Specie nelle diatribe tribali, “nazionali” e anche interetniche, tra bosniaci e serbi, e contro i romeni - alla Polizia molti denunciano specialmente “una famiglia nuova” che avrebbe rotto gli equilibri.

Lo Stato- mafia è vecchio
Risale al 1992: lo Stato-mafia lo voleva l’ex Pci. Dopo le stragi che colpirono Falcone e Borsellino – che culminarono una lunghissima serie impunita di ass
assinii, stragi comprese, di “servitori dello Stato”, giudici, generali, commissari di Polizia, agenti, uomini politici, alcuni anche di parte Pci. Forse non lo voleva Napolitano, ministro dell’Interno, che da ultimo, da capo dello Stato, si tenterà di coinvolgere, ma i suoi compagni di partito sì. Lo ricorda Paolo Cirino Pomicino in uno dei suoi tanti libri, ma è vero.
È anche vero quanto Pomicino ricorda dell’ex giudice Violante. Che, da deputato Pci-Pds, votò con gli altri pidiessini contro un decreto Andreotti-Vassalli inventato per non scarcerare un nugolo di mafiosi, i loro processi essendosi prolungati più dei termini legali della carcerazione preventiva.
Ai ricordi di Pomicino si può aggiungere la curiosità che, nella lunga carcerazione di Riina, la belva umana che decretava e organizzava le stragi, solo una confidenza gli sarebbe stata intercettata. Quella in cui dice: “I comunisti sono i nostri nemici”. Per il resto è stato muto? Ma no, non si ricorda che a Reggio Calabria, a uno dei suoi processi, il boss solitamente muto si fermò per dichiarare all’improvviso la stessa cosa: “I comunisti sono i nostri nemici”. Ce n’era così bisogno?  
 
Napoli
Mediava i classici per la cultura italiana nel Trecento. Dionisotti, “Geografia e storia della letteratura”, lo spiega a proposito di Boccaccio, che a differenza di Dante, che pure idolatrava, aveva il gusto della cultura classica: l’aveva mediato a Napoli, ambiente saturo di cultura francese, che al tempo, prima di Petrarca, mediava i classici per il resto degli italiani – aveva avviato l’Umanesimo.
 
Solo (ancora) quindici anni fa varava il “tempo di Napoli”: orologi tipo Swatch, di platica, con il Golfo nel quadrante, da regalare o vendere come gadget negli alberghi, pregando i clienti di depositare, prima di uscire, gli orologi veri. Una trovata politica, con Regione, Provincia, Comune, Confindustria all together, ma ideata in realta dal gestore dell’albergo “Vesuvio” contro gli scippi.
 
Avviene di dover viaggiare da Roma in Calabria il giorno di Pasquetta, e di fare il viaggio inverso il 25 aprile. In giornate e orari che registrano un traffico in autostrada modesto, senza peraltro mezzi pesanti. E di trovare le stazioni di servizio, prima e dopo Napoli-Salerno, piene. Sono giovani in coppia per lo più, o in gruppo, e famigliole, che prendono la pizza con la birretta, o la coca-cola, in cerchio, in silenzio. Festeggiano così: non hanno altro luogo in paese, altro richiamo, che la stazione di servizio, ventosa quando non è puzzolente, attorno ai baracconi degli autogrill, variamente denominati.
 
 “I napoletani sono oggi una grande tribù, che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Boja, vive nel ventre di una grande città di mare”: Pasolini così rispondeva nel 1971 a Ghirelli, che indagava “La napoletanità”, con questa (Ghirelli) “pagina stupefacente”. Che i napoletani diceva in ultimo “irripetibili, irriducibili e incorruttibili”.
 
Nel rimpianto del dialetto come forma espressiva reale, prima della omologazione nella società dei consumi, fittizia, che pervade l’intervista con Enzo Golino nel 1973 (“Il Giorno”, 29 dicembre 1973), Pasolini fa eccezione per Napoli: “Napoli è rimasta l’unica vera grande città dialettale”. Come una grande formazione partigiana, si direbbe, di resistenza linguistica: Napoli fa suoi i modelli o le norme che via via arrivano “dall’alto nella lingua e nel comportamento”, ma in superficie – “sono secoli che i napoletani si adattano mimeticamente a chi è sopra di loro, ma poi nella sostanza restano uguali, conservano il loro modello culturale”.
 
È “aggressiva, ruggisce”, l’attrice Luisa Ranieri la sintetizza così, napoletana cresciuta fuori, sulla rivista “7” due settimane fa: “Napoli è un unicum di colori, caos, vitalità, ma è anche una città feroce”. Nel senso proprio – “anche la gentilezza è più cruda, non ha tratti borghesi”.
 
È nobile, stranamente, nelle periferie è rimasta tale. Nelle periferie del “Regno”. Nobilmente femminile, o femminilmente nobile. In Calabria una “gentildonna” è sicuramente napoletana. Anche nel Cilento. Per il tratto, il modo di guardare, di porgere, di relazionarsi, la calma introversa.
 
La rivista “7” del “Corriere della sera” riesuma un vecchio articolo di Carlo Nazzaro sul “canto magico dei posteggaiori napoletani menestrelli da trattoria (adorati da Wagner)”. Anche Caruso, ricorda Nazzaro, aveva esordito tra bagni e caffè, “e del posteggiatore conservò l’accorato canto e la umana comunicativa”. Anche ora, qualche anno fa, prima del covid, a Trastevere un ristorante napoletano aveva un giovane cameriere che ardeva dalla voglia di cantare: se richiesto si produceva, senza alcun la, e strappava alla fine, dopo la sorpresa, gli applausi. Si direbbe città dal canto incontenibile.
 
L’università oggi intitolata a Federico II si appresta a celebrare gli ottocento anni di attività nel 2024. Facendosi merito, secondo Marino Niola sul “Venerdì di Repubblica”, di essere stata un’università pubblica, voluta cioè dal sovrano, dallo Stato – “a differenza di Bologna e Padova, fondate nel 1088 e nel 1222”, da privati gruppi di cittadini, da una corporazione e da un’associazione. Sarà, ma delimita l’ambito di una cultura. Che sarà a lungo innovativa, gli aragonesi dopo gli Altavilla-Hohenstaufen hanno avviato la cultura dei classici, aprendo studi e opportunità a Petrarca e Boccaccio tra i tanti. Ma non esprime – e non forma – la famosa classe media, la classe di tutti, il melting pot che mette insieme i lazzari e i baroni.
 
Arturo Perez-Reverte, lo scittore spagnolo reporter di guerra e romanziere di best-seller, è un italianista, innamorato specialmente di Napoli. Nato a Cartagena, sul mare, considera il Mediterraneo la sua patria, spiega a Luca Caioli sul “Venerdì di Repubblica”: “E Napoli è la condensazione del Mediterraneo. Lì c’è tutto: la Spagna, Bisanzio, i greci, i romani, gli arabi, gli americani, i normanni, i tedeschi, tutti sono passati da Napoli”. Mondo meticcio per eccellenza – l’eccellenza del meticciato?
 
L’ex ministro Pomicino, peraltro napoletano purosangue, ricorda nel suo ultimo libro, “Il grande inganno”, di essere stato processato 42 volte, e mai condannato. Certo l’aggiustizia a Napoli è raccapricciante, da Tortora alla Juventus – che la giudice Palaia si rifiutava di giudicare. A Napoli, e anche a Milano, da Borrelli a Minali, a Boccassini e a Greco. Resta negli annali il giudice di Cassazione che in sessione feriale che condannò Berlusconi. E il giudice figlio di giudice, nipote di giudice, De Magistris che s’inventò Prodi capo massone a San Marino, per farsi finalmente cacciare da Catanzaro e tornare a Napoli, via Santa Maria Capua Vetere - per poi, esaurite le sindacature a Napoli, candidarsi a governare a Catanzaro.

Erano anche gli anni, quelli ricordati da Pomicino, di Cordova capo della Procura a Napoli, un calabrese che pretendeva di far lavorare i cento o duecento sostituti, i quali, quando “andavano”, non aprivano le denunce – uno o due milioni le inevase. E mal gliene incolse, come a tutti i calabresi a Napoli: vi finì la carriera triste y solitario – destituito con disonore, su relazione di Giovanni Salvi, oggi inflessibile Procuratore Generale della Cassazione, di Lecce.  

leuzzi@antiit.eu

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