La libertà americana e la crudeltà
La
storia vera di Bob Zellner, giovane biondo dell’Alabama, figlio di un pastore
metodista che durante un soggiorno nell’Urss è diventato liberal e amico dei neri, figlio
a sua volta di un membro attivo del Ku Klux Klan che perseguiterà il nipote. Per
una “tesina” all’esame di laurea Bob partecipa a una funzione in una chiesa per
soli neri, nel 1961 c’era ancora il segregazionismo al Sud, e la cosa innesca
una serie di reazioni che lo portano sempre più a fianco della
protesta afroamericana.
Una storia
edificante, malgrado la violenza. Si scherza anche - nel mirino i progressisti bianchi,
con tutti i cliché dello
snobismo (“questa è una democrazia”, “no, è una repubblica”, è una delle battute).
Ma a fin di bene: Brown, inglese di provenienza, montatore di Spike Lee, ne fa una
storia hollywoodiana, in cui il bene trionfa e trionferà. Con una
controindicazione, che ne fa un film speciale: la violenza crudele e gratuita
dell’essere americano, come un riflesso condizionato. In tanta bontà risalta di
più. O forse solo perché è rappresentata come avviene: la facilità con cui una discussione
arriva al sangue, come se pestare, deformare, uccidere fosse un’estensione della
discussione. Un mondo si direbbe primitivo, dove la forza è solo assassina, distruttiva.
Barry
Alexander Brown, Il colore della libertà, Sky Cinema
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