Il realismo di Kissinger
Un ritratto acido, per quanto
l’età di Kissinger, 97 anni due anni fa, lo consentiva. Nelle prime righe
l’insinuazione che lavorasse per la Cia nei seminari estivi di politica estera
che organizzava a Harvard negli anni 1960. Mentre si sa che non è vero – ai
seminari parteciparono anche intellettuali italiani sicuramente non da
sottobosco, Furio Colombo, Arbasino, La Capria. Dopo l’insinuazione che usasse
la rivista “Confluence”, che dirigeva sempre per conto di Harvard, per
sdoganare ex nazisti. Meaney fa il nome di Ernst von Salomon, il quale invece
era un nazionalista e basta, e come scrittore era ammirato e tradotto dal
giovanissimo Giaime Pintor. Mentre viceversa Kissinger colloquiava con
Vittorini, Alvaro, Moravia, Enriques Agnoletti (“Il Ponte”), Valiani - o Hananh
Arendt, e tanti altri, Adriano Olivetti ne farà una pregiata antologia.
Alla fine si corregge. Sono
eccessive, dice, falsate, le biografie di Christopher Kitchens, “The Trial of
Henry Kissinger”, 2001, che fa di Kissinger un criminale di guerra, e di
Seymour Hersch, “The Price of Power”, 1983, che lo vuole uno squilibrato
paranoico. Nel mezzo, non può non ricordare che è uno che ha capito la funzione
della Cina nell’equilibrio internazionale, nella balance of power dei manuali diplomatici, nel pieno della
Guerra fredda, nel 1973, le ha aperto
l’America, da solo. Mentre volava a Mosca, la Mosca di Breznev, per imporre i
visti a chi desiderava lasciare il paese. E chiudeva in Vietnam la peggiore sconfitta militare di tutti i tempi, in mezzi e in armi, se non in morti e
mutilati – lo scacco più grave del concetto americano di potenza, ancorato al
western: più forza più Potenza. Mentre insegnava agli sceicchi ancora
attendati della penisola Arabica - mezzo secolo fa erano ancora attendati– e allo scià di
Persia che il petrolio poteva e doveva triplicare di prezzo, per rilanciare
gli investimenti, negli Stati Uniti.
Un personaggio sicuramente
extralarge per l’America. Da cui si tiene curiosamente distante, continuando a
parlare a cento anni, e dopo aver convissuto con una moglie wasp, con l’accento
tedesco di quando ci arrivò emigrando bambino. Che resta la potenza forte e
rude della sua ideologia del West, con poca cultura del mondo, se non per
l’occasionale intelligenza di F.D Roosevelt, del generale Marshall, di George
Kennan, di Adlai Stevenson. Che ama più di tutti i suoi capi più disastrosi,
Kennedy, Reagan - il saggio la rivista originariamente
intitolava “The Wages of Realism”, come a dire l’abbiamo avuto, questo
contabile della politica estera, e ce lo teniamo. Ma ancora ieri in grado di
spiegare a Londra, ai giornalisti inglesi interessati alla serie di ritratti di
grandi personaggi politici che pubblica col titolo “Leadership”, che la Russia
è parte della storia dell’Europa, coinvolta anzi “in alcuni dei grandi trionfi
della storia europea”. Elementare. Come a dire: sradicarla sarà difficile se
non impossibile. Sarà Realpolitik, ma
ci vuole intelligenza – un minimo
nella fattispecie.
Thomas Meaney, The Myth of Henry Kissinger,
“The New Yorker” 18 maggio 2029, anche audio, free online
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