A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (498)
Giuseppe Leuzzi
“Al Sud si dice:
se vuoi stare bene, lamentati”, Franecsco Merlo a una lettrice su “la
Repubblica”. In quale Sud – che pure non è segreto, né misconosciuto?
Ha molto “Sud”
Pasolini appena arrivato a Roma, negli articoli di giornale che scriveva per
guadagnare. Venendo dal Nord. Ha i “dialetti meridionali” – non da futuro
filologo, evidentemente. Il primo “ragazzo di Monteverde”, che lieviterà nei
“Ragazzi di vita”, ha “zigomi leggermente meridionali” – chissà come Pasolini
avrà considerato i suoi. A un certo punto vede attorno a Roma “i monti ondulati
a catena, allineati, del Meridione”. Il primo trattamento de “La ricotta”
finisce in “un mucchio di parenti maschi venuti da Sardegne e da Calabrie,
neri, ancora, e torvi, perduti come lupi nella loro alloglossia” – che del
calabrese un filologo non potrebbe dire, essendo in tutte le sue declinazioni
neolatino, prevalentemente.
C’era già il
“tripolìn”, “il Napoli” a impestare Torino, un musicista melodico, quando
Pavese scriveva il suo primo romanzo, “Ciau, Masino”, nel 1932.
Nel cazzeggio
fra giovani “studenti” svagati che infioretta buona parte del primo romanzo di
Pavese, “Ciau, Masino”, 1932, rimasto inedito, l’intelligentone del gruppo, “l’ebreo”
Hoffman, argomenta il razzismo cone una forma di campanilismo – la
“napoletanità” o la “sicilitudine” di oggi, in questo caso la “piemontesità”:
“Non esistono le razze in quanto si tratta di essere intelligenti, gli uomini
sono uguali in dignità. Ma è quando non si pensano, si dicono fregnacce e si
ripetono pregiudizi che ci si differenzia. Voi a forza di ripetervi che siete
solidi e quadrati e che vivete in certi modi”, dice agli amici, “finite di
vivere sul serio in questi modi, e fate i tipi, senza accorgervi delle cose più
importanti che c’è al mondo”.
Ci sono due Masino
in quello di Pavese, uno “studente” spensierato (la vita a Torino), e uno operaio
sfortunato (Santo Stefano Belbo, allora non Langhe da cartolina) A un certo punto
Masin fra le tante disgrazie ci mette le scuole: “quel vecchio bischero della
botanica”, e il professore d’italiano e storia, che leggeva come “uno sposo
giovane”, facendo incazzare i ragazzi. “Garibaldi, ‘na rôla – una volta, mentre
lo sposo declamava il Carducci, un compagno aveva borbottato, - l’ha mach fane
‘l regal ‘d côj terôn, Garibaldi -. Ed era stata una grande verità per Masin”.
Ulisse
calabrese, sessuomane
L’ultimo agosto
pre-covid, nel 1919, la Regione Calabria e il comune di Siderno hanno
festeggiato Lawrence Ferlinghetti, il poeta italo-californiano, per i suoi 100
anni, riaprendo per l’occasione il borgo semiabbandonato originario del paese,
Siderno Superiore. Con una mostra pittorica, di suoi schizzi, e “una
serie di incontri culturali”, diceva il programma, “reading di poesia,
presentazioni di libri, concerti, performance, laboratori di lettura e
scrittura dedicati ad adulti e bambini, organizzati con la collaborazione delle
associazioni del territorio”. Una manifestazione a cura di Elisa Polimeni, organizzatrice
di eventi culturali, videomaker, fotografa, curatrice dell’archivio pittorico
di Ferlinghetti, e di Giada Diano, biografa e traduttrice di Ferlinghetti.
La biografia di Ferlinghetti
Diano intitola “Io sono come Omero”. In Calabria, “in uno dei suoi ultimi
soggiorni”, Ferlinghetti aveva realizzato una seria “Ulisse calabrese”, in
chiave erotica – “ironica e moderna”, dice la curatrice: Ulisse indugia, prende
tempo, rimanda, perché impegnato in imprese amorose. E Ferlinghetti mandava a
dire: “Questa rivelazione delle attività sessuali clandestine di Ulisse nel
corso del suo famoso tour del Mediterraneo aggiunge un nuovo capitolo all’Odissea
di Omero. Ecco la storia nascosta di Ulisse e delle sue avventure amorose
notturne in Calabria. Naturalmente nessuno sa esattamente quante donne egli
abbia amato in estatici incontri. (Di certo ha superato di gran lunga le
attività sessuali notturne di Leopold Bloom dell’Ulisse di James Joyce)”.
Potrebbe essere un’alternativa: dare un’alternativa a giornalisti e giudici, dovendosi parlare di Calabria - se non fosse che Calabria era in antico, ma Ferlinghetti poteva passarci sopra, fino a impero di Oriente inoltrato, quando un paio di emirati vi si installarono, spingendo Bisanzio a spostare il nome sul vecchio Brutium per non perdere il brand, il Salento della parte alta, verso Brindisi, quella dei Calabri della lapide di Virgilio a Piedigrotta.
Era la seconda o terza
celebrazione di Ferlinghetti pittore in Calabria. La prima, organizzata sempre
da Diano e Polimeni, a Reggio Calabria nel 2010, “Lawrence Ferlinghetti: 60
anni di pittura”, una mostra di pittura a cui Ferlinghetti aveva voluto presenziare,
malgrado l’età avanzata, grato di un’esposizione dei suoi quadri e disegni, in
Italia. E qui forse, in riva allo Stretto, era germogliata l’idea dell’“Ulisse
calabrese”. La seconda celebrazione, un anticipo di quella di Siderno, era
stata organizzata due anni più tardi, sempre ad agosto, sempre da Diano e
Polimeni, al castello di Federico II a Rocca Imperiale, superbo borgo al
limitare della Basilicata. Un’altra personale di pittura di Ferlinghetti, già
intitolata a Ulisse, “Sulla rotta di Ulisse”. Un evento cui il festeggiato partecipò
da remoto, in videoconferenza. Illustrato da un prezioso cofanetto limited
edition, bilingue, con disegni e versi di Ferlinghetti, “The Sea within Us”,
“Il mare dentro di noi – Sulla rotta di Ulisse”. Con prefazione di Jack
Hirschman – un poeta, cultore di Pasolini, più giovane di una decina d’anni,
che morirà nel 2021 qualche mese dopo Ferlinghetti.
Sotto il segno del Toro
Maristella
Lippolis chiama Roma nel suo primo romanzo (“La notte dei bambini”) Tauersiti,
una parola mezza maccheronica e mezza inglese, che all’incirca vale per città
taurina – nel 2070, ma già s’immagina oggi. Pamplona, col covid e tutto, non si
priva di farsi cacciare dai tori infuriati. E si scopre che la corrida
si esercitava, e si celebrava in dipinti, a Siena, in centro città, chiamandola
“caccia”. A metà Quattrocento: sicuramente nel 1468, e forse anche prima, nel
1466, e anche dopo. Roberto Barzanti lo documenta sul “Corriere della
sera-Firenze” (“La «Corrida» dei senesi”): due tele di Vincenzo Rustici, di
proprietà degli Uffizi, in deposito nella collezione del Monte dei Paschi,
hanno per tema la “caccia” del 15 agosto 1546. Sempre nella piazza del Campo,
poi arena del palio equestre.
La tauromachia,
sport tra i più assurdi, combattere a mani nude contro un toro, perpetua il
vecchissimo culto del toro, pre-ellenico (minoico? miceneo?), animale-totem,
personificazione della forza. Nel Mediterraneo è forse il toponimo più diffuso,
sicuramente al Sud Italia. Che per questo però non è più forte – forse lo era?
Il nome Italia
designava originariamente un piccolo distretto della Calabria odierna”, è
l’incipit di una benemerita indagine sul nome delle nazioni, che Livia Capponi
presdenta su “La Lettura” di domenica di un mese fa, 3 luglio), “dove un popolo
di lingua osca adorava il vitello (vitlu
in lingua osca, vitulius in latino),
che era la «terra dei tori»”. Con qualche imprecisione: Calabria era, è stato fino al nostro secolo IX, il Salento settentrionale, verso Brindisi e Taranto. La denominazione ricorre già in Erodoto, e in
Ecateo di Mileto, quindi nel V secolo. Gli Enotri, “popolazione la
cui collocazione storica è discussa”, sempre Capponi, entrano in ballo forse
con lo storico Antioco di Siracusa, figlio di Senofane, il filosofo, che si sa
essere stato autore di un libro sull’Italia.
Tardi, una
moneta datata 90 a.C. a Corfinio in Abruzzo “mostra una personificazione
dell’Italia come una dea, accompagnata dalla leggenda Italia in latino, e dall’equivalente Viteliu in osco”. Il nome intanto era arrivato a “indicare l’intera
penisola, dalla punta dello stivale fino ai fiumi Arno e Desino” nel 300 circa
a.C. - “in un momento imprecisato precedente alla Prima Guerra Punica (264-241 a.C.)
– e poi, un secolo dopo, arrivò a includere tutto il Settentrione fino alle
Alpi”. O non dopo ancora, dopo la sconfita dei Galli celti a opera di Cesare?
Resta da spiegare
il mito vaccino, del vitello-toro. A mano di non dire l’Italia vitello e il Sud
toro. Ma in memoria di che?
Milano
“Flash art” – “storica rivista di arte contemporanea, dal
1967 sismografo attivo dell’arte contemporanea”, seleziona dieci artiste per “d”,
il settimanale di “la Repubblica”. Sette sono di Milano e dintorni. L’ombelico
del mondo, senza ironia.
“Io sono filo
leghista. Bossiano. L’unità d’Italia è stata un errore” – Fedele Confalonieri,
l’amico più intimo e il consigliere di sempre di Berlusconi, si diverte spiegando
a Cazzullo sul “Corriere della sera”.
Fa senso
l’alter ego di Berlusconi, suo amico d’infanzia e di piano-bar (quando facevano
i piano- bar), suo manager fidato, che fa professione di leghismo bossiano,
separatista, antimeridionale viscerale. È il lombardismo, dissimulare e
operare. Ma è anche un Sud come Bossi lo dice, incapace e inerme, che ha stravotato
Berlusconi, e ora direttamente vota Lega.
Confalonieri,
presidente dell’Opera del Duomo, ha di Milano una percezione milanocentrica: “Fisicamente
non è una metropoli, ma della metropoli ha l’anima. Come Parigi, Londra, New
York. Generazioni di persone sono
arrivate qui dal resto d’Italia e del mondo e sono diventate milanesi”.
“Milano
romantica” è un titolo di Antonio Monti. È la Milano 1818-1848. Il romanticismo
italiano è stato milanese – tuttora, Milano è ancora romantica, vive nelle
nebbie?
Le mani sui
fianchi, la giudice Alessandra Dolci, capo dell’Antimafia della Procura di
Milano, arringa il consiglio comunale di Milano in seduta speciale: c’è la mafia.
Non quella dalle mani sporche, quella che “risolve ogni problema”, riferisce il
“Corriere della sera”. Un siciliano, un calabrese, che risolve i problemi dei
milanesi?
No, è che i
milanesi s’industriano nell’illegalità: “Otto volte su dieci è l’imprenditore
che cerca i servizi del mafioso, perché è un modo semplice per alterare le
regole del mercato,”, etc, etc., la mafia fa fare affari, la mafia crea lavoro,
il solito repertorio. Ma, e dunque: perché non arrestiamo gli imprenditori milanesi,
se questi mafiosi sono inafferrabili?
Secondo la giudice
Dolci, sempre secondo il “Corriere della sera”, “è la ristorazione il vero
business delle associazioni mafiose, che in questo settore reinvestono gran
parte del capitale proveniente dal traffico illecito di droga”. C’è un traffico di droga lecito? Ci sono “associazioni” mafiose? E la droga, perché non cercarla
a Milano, che ne è la più grossa consumatrice in Europa? Magari al ristorante.
Mentre la
dottoressa Dolci parlava, i Carabinieri di Busto Arsizio,
poco lontano da Milano, individuavano a Lonate Pozzolo, praticamente Milano, una “cupola della droga”, senza mafia, non
italiana, trenta piazze di vendita, nei “boschi dello spaccio” e altrove, nei soli
dintorni di Varese, e “il fenomeno” dei “pusher a chiamata”. Con tutte le piaghe
connesse: la prostituzione per la dose, il tfr per la dose, la violenza
domestica per la dose.
Caterina Sforza la
sua Forlì ha celebrato come “l ’anticonformista”, in due giorni di commemorazione –
“sua” per eredità dal marito, essendo appunto nata Sforza, milanese, che però
si tenne stretta Forlì, contro un papa “guerriero” come e più di lei, Giulio
II, e altri malintenzionati. Venendo però dall’iperconformismo: a nove anni era
già sposa a Girolamo Riario, di nient’altro capace che di essere nipote del
papa regnante, Sisto IV – a venticinque vedova con sei figli. Maritata dal
padre, il duca di Milano, peraltro celebrato, Galeazzo Maria.
leuzzi@antiit.eu
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