La riproposta di una smilza raccolta, una quarantina di pagine, per 600 di paratesto, per dire che, forse, Louise Labé non è Louise Labé. A opera della stessa studiosa che quindici anni fa ne mise in dubbio, se non l’esistenza, la maternità della raccolta. La francesista, specialista del Cinquecento, Mireille Huchon, della Sorbona, non ha elementi per dire che una Louise Labè non è esistita, a Lione, fra il 1524 e il 1566, figlia di un cordaio, sposa di un ricco mercante di cordami, bella donna, musa dei petrarchisti in città, numerosi, raccolti attorno a Maurice Scève, ma non le piace che una donna con questo nome, e capace di buona poesia, sia esistita. Ha opinato che fosse un nome d’invenzione, uno scherzo dello stesso Scève, con la collaborazione evidentemente di Marot e di Ronsard, che a lei hanno dedicato poemi. Il nome sarebbe un sollazzo, per ironizzare sul femminismo che a esso si lega. Suggerito peraltro dall’esistenza di buon numero di poetesse del genere, ma italiane – Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Gaspara Stampa, Tullia d’Aragona quelle dell’epoca e subito famose in Europa, molte molto petrarchiste, che Huchon non tratta, anzi non nomina. Per il resto esercitandosi nel petrarchismo.
Huchon non ha più ragioni di dire che Louise Labé è uno pseudonimo collettivo, maschile, un Wu Ming d’epoca, di quante ne abbia per dire che una poetessa con quel nome è esistita. Anzi ne ha di meno, e arrampicate sugli specchi – per l’essenziale consistono di analisi comparate dei testi, di Labè e dei “lionesi”, come se tutti (non) copiassero da Petrarca, e tra di loro: nequizie della filologia. Ma ha ottenuto subito, senza ripensamenti, l’avallo di Marc Fumaroli, e questo basta – Fumaroli non porta alcun argomento all’inesistenza, se non il richiamo al vezzo latino della “puella scripta”, dei tanti versi amorosi di fanciulle desideranti inventati dai marpioni Catullo, Ovidio et al. La cosa non esime Gallimard dall’elevare Louise Labè, dopo quasi cinque secoli, alla consacrazione editoriale, per avvantaggiarsi dell’effetto scandalo.
I documenti noti su una Louise Labè a Lione sono pochi, una dozzina. Ma precisi, soprattutto il testamento redatto il 28 aprile 1565, da tempo allettata, di cui nomina esecutore un Tommaso Fortin, ricco commerciante tessile italiano, che si presume suo amante o protettore – una teoria ottocentesca, in chiave antifemminista, vuole la poetessa una cortigiana, come usava in Italia. Il canone la considerava una donna colta, che sapeva il latino e l’italiano, praticava la musica e l’equitazione, e teneva un salotto frequentato da letterati.
L’opera si compone di 662 versi in tutto. Un “Dibattito di Follia e d’Amore”, con tre elegie e 24 sonetti, sull’amore come lo provano le donne, e sui suoi tormenti. Con una sua freschezza, malgrado la maniera - “l’amore vuole follia”, “il maggior piacere, dopo l’amore, è parlarne”. Il primo sonetto, in endecasillabi, è in italiano – gli altri, in francese, sono decasillabi. I temi sono del canone petrarchesco: l’amore (desiderio, passione), tristezza (lacrime e sospiri), sofferenza (paure, disgrazie), pericoli (morte, partenza, assenza). Con figure tratte dalla mitologia greca e da quella latina, e le conoscenze geografiche dell’antichità, fino al Caucaso e all’impero Parto. Il liuto è “compagno della sua (della poetessa) calamità”. Un sonetto, il XXI, prova anche a immaginare le pene d’amore maschili.
“Non avria Ulysse o quanlunqu’altro mai\ Più accorto fu, da quel divino aspetto”, recita il primo sonetto, “Pien di gratie, d’honor et di rispetto,\ Sperato qual i sento affanni e guai”, etc. : “O sorte dura, che mi fa esser quale\ Punta d’un Scorpio, et domandar riparo\ Contr’ei veleni dall’istesso animale….”.
Louise Labé, Oeuvres complètes, Bibliothèque de la Pléiade, pp. 664, ill. € 49
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